INDICE
- Storia dei diritti umani di MP
- Diritti umani. Realtà e utopia di Isabella Adinolfi
- Attualità dei diritti umani di Enrico Berti
#################################################################
STORIA DEI DIRITTI UMANI di MP
Il Re di Ur creo cio che si suppone sia il primo codice legale all'incirca nell'anno 2050 a.C. Numerosi altri corpi legislativi furono creati in Mesopotamia incluso il Codice di Hammurabi, (ca. 1780 a.C.) che è uno degli esempi meglio preservati di questo tipo di documento. Esso mostrava le leggi e le punizioni conseguenti all'infrazione delle leggi su una vasta quantità di problemi incluso diritti delle donne, diritti dei bambini e diritti degli schiavi. La nozione di diritti minimi connessi alla sola qualita di essere umano, i cosiddetti diritti naturali, è molto antica e anche molto generica. Quello che caratterizza l'idea di diritti dell'uomo è il fatto
di inscriverli esplicitamente nel diritto (orale o scritto), di riconoscere loro un'applicazione universale e una forza superiore ad ogni altra norma. Si passa allora spesso attraverso una forma di proclamazione piuttosto che attraverso l'ordinaria emanazione di norme legali; i termini utilizzati sono quelli di un'evidenza preesistente e indiscutibile che si scopre e si riconosce, piuttosto che di una semplice convenzione discutibile. L'unanimita è implicitamente convocata come fonte della legittimità di questi diritti. Anche se possiamo ritrovare dei riferimenti al divino o delle influenze religiose, essi si distinguono da una regola religiosa
attraverso il loro carattere universale e laico.
Tra i primi ad affrontare il tema da un punto di vista speculativo, sono forse i filosofi greci, in particolare Aristotele e gli stoici, che affermano l'esistenza di un diritto naturale, cioè di un insieme di norme di comportamento la cui essenza l'uomo ricava dallo studio delle leggi naturali. Questo pensiero, detto giusnaturalismo, ha origini antichissime, e di sovente viene suddiviso in vari tronconi storici. Il giusnaturalismo antico è riassumibile nel pensiero del grande filosofo greco espresso nella sua Etica Nicomachea:
" Del giusto civile una parte è di origine naturale, un'altra si fonda sulla legge.
Naturale è quel giusto che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che a uno sembra buono oppure no; fondato sulla legge è quello, invece, di cui non importa nulla se le sue origini siano tali o talaltre, bensì importa com'esso sia, una volta che sia sancito" (Aristotele)
Nella pratica il concetto di diritti dell'uomo viene affrontato storicamente per la prima volta nel VI secolo a.C. da Ciro il Grande, sovrano dell'Impero Persiano (attuale Iran). Dopo la conquista di Babilonia (attuale Iraq) nel 539 a.C., il re fa emanare il testo scolpito sul "cilindro di Ciro", rinvenuto nel 1879 tra le rovine di
Babilonia e conservato al British Museum a Londra. Questo documento è correntemente menzionato come la "prima carta dei diritti dell'uomo" poiché esprime rispetto per l'uomo in quanto tale e promuove una forma elementare di libertà e tolleranza religiosa. Esso afferma:
"Io sono Ciro, re del mondo, gran re, re legittimo, re di Babilonia, re di Sumer e Akkad, re delle quattro estremità (della terra), figlio di Cambise, gran re, re di Anzan, nipote di Ciro, gran re, re di Anshan, discendente di Teispe, gran re, re di Anshan, di una famiglia (che) ha sempre regnato. Non permetto a nessuno di spargere terrore nel Paese di Sumer e Akkad. Voglio fermamente la pace a Babilonia e in tutte le sue sacre città. Per gli abitanti di Babilonia io abolisco i lavori forzati [...] Da Ninive, Assur e Susa, Akkad, Eshnunna, Zamban, Me-Turnu e Der fino alla regione di Gutium, restituisco a queste sacre città dall'altro lato del Tigri i templi di cui è stata fatta rovina per lungo tempo, le immagini che una volta vi erano conservate e stabilisco che essi siano i loro templi. Ho anche radunato gli abitanti di queste regioni e ho restituito loro le case che avevano."
Ciro quindi dichiarava in sostanza che i cittadini dell'Impero erano liberi di manifestare il loro credo religioso e, inoltre, aboliva la schiavitù permettendo il ritorno dei popoli deportati nelle terre d'origine, dalla qual cosa derivò anche la biblica fine della cattività babilonese per il popolo di Israele.
Nella Roma antica esisteva la nozione di diritto di cittadinanza che era in sostanza un insieme di diritti riservati a tutti i cittadini romani.
Nel III secolo a.C., durante il regno di A.oka il Grande sull'Impero Maurya (oggi India), furono stabiliti diritti civili senza precedenti. Dopo la sanguinosa conquista del regno di Kalinga, circa nel 265 a.C., A.oka si pentì degli atti commessi in guerra e si convertì al Buddhismo. Da allora colui che era stato prima descritto come "il
crudele A.oka" fu conosciuto come "il pio A.oka". Durante il suo regno egli perseguì una politica di nonviolenza (ahimsa) e rispetto per la vita animale (ad esempio forme di uccisione o mutilazione non necessaria di animali, come la caccia per divertimento e i sacrifici a carattere religioso o la castrazione, furono immediatamente abolite). Egli trattò i suoi sudditi come uguali a prescindere dalla loro religione, casta o attività politica, costruì ospedali e università offrendone i servizi gratuitamente a tutti i cittadini, definì i principi di non-violenza, tolleranza religiosa, obbedienza verso i genitori, rispetto verso gli insegnanti e i preti, umanità verso i servi (la schiavitù non esisteva in India a quei tempi), generosità verso il prossimo, benevolenza verso i colpevoli. Tutte queste riforme sono descritte negli Editti di A.oka, una collezione di 33 iscrizioni sui cosiddetti Pilastri di A.oka.
In tutte le società antiche i principi dei diritti umani sono stati fissati nei testi religiosi.
I Veda induisti, il Tanakh ebraico, la Bibbia cristiana, il Corano islamico e gli Analecta confuciani sono tra gli scritti piu antichi che affrontino la questione dei diritti e doveri dell'uomo e delle sue responsabilità. Nel caso della società cinese al tempo di Confucio (551-479 a.C.), è indubbio che non fossero rispettati nemmeno
i fondamentali diritti umani poiché non esisteva l'idea di diritti naturali inalienabili dei quali ogni uomo gode fin dalla nascita; i diritti erano accordati solo in riguardo della posizione e del ruolo dell'individuo nella società (cf. scritti di Hans-Georg Moller, Brock University, Canada).
Bisogna arrivare al Medioevo per trovare le prime manifestazioni concrete con effetto pratico dell'idea di diritti dell'uomo.
Nel XIII secolo il giusnaturalismo scolastico, che ha avuto come suo massimo esponente un altro filosofo, Tommaso d'Aquino, descrive i diritti naturali come un "insieme di primi principi etici, generalissimi" che condizionano il legislatore nel diritto positivo, in quanto sigillo di Dio nella creazione delle cose. I diritti umani
quindi non sono piu un insieme di cose piu o meno benevolmente concesse da qualche autorità. E' diritto dell'uomo rivendicare la propria libertà quale suo diritto naturale.
Nel 1215 il re dfInghilterra John Lackland (Giovanni Senzaterra) fu costretto dai baroni del regno a concedere, firmandola, la Magna Charta Libertatum (Carta delle libertà). Essa rappresenta il primo documento fondamentale per la concessione di diritti ai cittadini perché impone al re il rispetto di alcune
procedure, limitando la sua volontà sovrana per legge.
Tra gli articoli della Magna Charta ricordiamo il divieto per il Sovrano di imporre nuove tasse senza il previo
consenso del Parlamento (no taxation without representation) e la garanzia per tutti gli uomini di non poter essere imprigionati senza prima aver sostenuto un regolare processo (due process of law), riducendo inoltre l'arbitrarietà del re in termini di arresto preventivo e detenzione. Benché la Magna Charta nel corso dei
secoli sia stata ripetutamente modificata da leggi ordinarie emanate dal Parlamento, conserva tuttora lo status di Carta fondamentale della monarchia britannica. Il papa Innocenzo III (1160 - 1216) condannò la Magna Charta: bolla del 24 agosto 1215; e nel dicembre 1215 scomunicò i baroni.
Alla fine dell'anno 1222, il giorno dell'incoronazione di Sundjata Keita quale sovrano dell'Impero del Mali, fu solennemente proclamata e tramandata oralmente la Carta Manden, una dichiarazione di diritti umani essenziali quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà. La Carta Manden si rivolge ai "quattro angoli del mondo" con sette affermazioni:
- ogni vita è una vita;
- il torto richiede una riparazione;
- aiutatevi reciprocamente;
- veglia sulla patria;
- combatti la servitù e la fame;
- che cessino i tormenti della guerra;
- chiunque è libero di dire, di fare e di vedere;
Si trovano in questa carta i temi che saranno trattati vari secoli dopo in Occidente nelle dichiarazioni dei diritti umani: il rispetto della vita umana e della libertà dell'individuo, la giustizia e l'equità, la solidarietà. Prendendo posizione contro la schiavitù, divenuta corrente in Africa occidentale, la carta identifica la violenza delle cause come precedente la violenza della guerra. L'abolizione della schiavitù fu probabilmente il grande merito di Sundjata Keita. La Carta Manden può probabilmente essere considerata come una delle prime dichiarazioni dei diritti dell'uomo.Fin dal 1305 in Inghilterra, sotto il regno di Edoardo I, per quanto anche anteriormente a tale data fossero stati emessi writs (mandati) di contenuto analogo, si diffonderà l'uso dell'Habeas corpus, un writ che impone la conduzione di un suddito imprigionato di fronte ad un tribunale per un giusto processo, o la scarcerazione in alternativa. Con l'emissione del writ di Habeas corpus una corte reale poteva ordinare a qualsiasi altra giurisdizione la consegna del prigioniero garantendolo dall'arbitrio signoriale. L'importanza di questo atto legale può essere compresa se si considera che nel diritto inglese originario ogni suddito poteva essere soggetto a una pluralità di giurisdizioni locali e signoriali, le quali tutte potevano disporre fisicamente del soggetto. Il diritto di habeas corpus e stato alungo celebrato come il più efficiente atto di salvaguardia della liberta dell'individuo. Dal corpus legislativo inglese l'Habeas corpus e passato in tutte le costituzioni occidentali, fino ad approdare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che all'Articolo 9 recita: Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
La conquista spagnola delle Americhe a partire dal XV secolo e la scoperta di popolazioni indigene, e le prime conseguenti pratiche di deportazioni di individui pelle nera dall'Africa verso il "Nuovo Mondo", crearono un vigoroso dibattito sui diritti umani. Francisco de Vitoria e altri filosofi della Scuola di Salamanca enunciarono il concetto di diritto naturale relativamente al corpo (diritto alla vita, alla proprietà) quanto allo spirito (diritto alla liberta di pensiero, alla dignità). I teologi dell'università di Salamanca furono tanto radicali da condannare qualsiasi forma di guerra (con poche eccezioni) come una violazione dei diritti naturali, opponendosi espressamente alle campagne di Carlo I. La dottrina giuridica della Scuola di Salamanca significò la fine del concetto medievale del diritto marcata da una rivendicazione di liberta inusuale per l'Europa dell'epoca. I diritti naturali dell'uomo sono connessi alla natura stessa di essere umano, quindi ovviamente se tutti gli uomini hanno la stessa natura essi hanno anche gli stessi diritti di liberta e uguaglianza. E da inscrivere in questo quadro lo scontro filosofico conosciuto come Giunta di Valladolid (1550-1551) che vide contrapposte la teoria del frate domenicano Bartolomeo de Las Casas a difesa della liberta naturale degli indigeni americani e quella dell'umanista Juan Gines de Sepulveda sostenitore della loro naturale schiavitù Questi primi dibattiti sullfargomento nella storia europea si manifestaronocon la bolla Sublimis Deus, attraverso la quale il papa Paolo III dichiaro lfumanitadegli indigeni americani e il loro diritto alla liberta e alla proprieta, condannandola pratica della schiavitu.Las Casas lottava dal 1512 per i diritti degli indigeni, quando era cappellano dei conquistadores a Cuba sotto il comando di Diego Velázquez de Cuellar. Più volte testimone e attore della resistenza indigena alla penetrazione sanguinaria dei Conquistadores e della cristianizzazione imposta "a ferro e fuoco", egli aveva scritto la Brevisima o "breve relazione sulla distruzione delle Indie" nella quale descriveva le crudeltà di cui erano fatti oggetto gli indigeni. Il 26 gennaio 1542 Las Casas fu presentato all'imperatore Carlo V, al quale riassunse il contenuto della"Brevisima". Da questo incontro nacquero le "Leggi nuove" del novembre 1542 che proclamavano: Las Casas lottava dal 1512 per i diritti degli indigeni, quando era cappellano dei conquistadores a Cuba sotto il comando di Diego Velázquez de Cuellar. Più volte testimone e attore della resistenza indigena alla penetrazione sanguinaria dei Conquistadores e della cristianizzazione imposta "a ferro e fuoco", egli aveva scritto la Brevisima o "breve relazione sulla distruzione delle Indie" nella quale descriveva le crudeltà di cui erano fatti oggetto gli indigeni. Il 26 gennaio 1542 LasCasas fu presentato all'imperatore Carlo V, al quale riassunse il contenuto della"Brevisima". Da questo incontro nacquero le "Leggi nuove" del novembre 1542 che proclamavano: la liberta naturale degli indigeni e la messa in liberta degli schiavi la liberta del lavoro, che limita le corvee e abolisce la pesca delle perle la liberta di residenza e la libera proprietà dei beni, fino alla punizione di coloro che saranno violenti o aggressivi verso gli indigeni l'abolizione del sistema delle encomiendas, consistente nell'affidare a degli encomenderos spagnoli determinati territori abitati con, "in dotazione", un gruppo di indigeni, che dovevano essere colonizzati e cristianizzati, con liberta assoluta di governo. Le rivolte e l'anarchia che seguirono nelle colonie spagnole del Nuovo Mondo portarono all'abrogazione di queste leggi in favore della conquista indiscriminata. Il giusnaturalismo razionalistico moderno nacque tra il 1600 e il 1700, divisibile in due filoni: quello dell'Illuminismo di fine '700 (con l'affermazione del concetto di liberta dell'individuo, soprattutto in opposizione all'assolutismo, la forma di governo caratteristica dell'età moderna) e quello che si sviluppa a partire dal pensiero di Thomas Hobbes (il quale per la verità considerava il diritto naturale proprio solo allo stato di natura, ovvero alla condizione in cui l'uomo si trova prima di stipulare quel contratto sociale che porta all'istituzione dello stato; pertanto Hobbes non può ritenersi autenticamente un giusnaturalista).Fra gli autori che, a vario titolo, hanno affrontato il tema del diritto naturale in età moderna si possono quindi citare:
Thomas Hobbes
Huig de Groot (Ugo Grozio)
John Locke
Jean Jacques Rousseau
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici razionalisti del giusnaturalismo, gli uomini, pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, restano titolari di alcuni diritti naturali, quali il diritto alla vita, alla proprietà etc., diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi.
Questi diritti naturali sono tali
perche razionalmente giusti, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, Dio li
riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla ragione.
Locke sviluppo invece il concetto di diritto naturale come derivato dalla divinita, in
quanto lfuomo e creazione di Dio, non limitando questo diritto ne al possesso della
cittadinanza ne a criteri di etnia, cultura o religione.
La prima dichiarazione dei diritti dellfuomo dellfepoca moderna e quella dello
Stato della Virginia (USA), scritta da George Mason e adottata dalla Convenzione
della Virginia il 12 giugno 1776. Questa fu largamente copiata da Thomas
Jefferson per la dichiarazione dei diritti dellfuomo contenuta nella Dichiarazione di
indipendenza degli Stati Uniti d'America (4 luglio 1776) la quale afferma "che tutti
gli uomini sono creati uguali tra loro, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni
inalienabili diritti tra cui la vita, la liberta e la ricerca della felicita".
Comunque sia, la prima e vera propria carta formale dei diritti dell'uomo e nata
nel 1789 dalla Rivoluzione francese, e conosciuta come Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino ed e caratterizzata da un'impostazione piu astratta della
precedente americana.
Fu poi Napoleone Bonaparte a esportare il concetto di diritti umani negli altri paesi
d'Europa, anche se in realta negandoli di fatto. Pertanto, una vera e propria
diffusione degli stessi si ebbe solo dopo i moti del 1848 e la conseguente
proclamazione delle prime costituzioni liberali nei vari paesi europei. Non va
nascosto che la chiesa del secolo XIX si oppose ai diritti dell'uomo:Pio VI nel breve
Quot Aliquandum; Gregorio XVI nella Mirari vos; Pio IX contro la liberta di culto;Pio
XI contro l'ecumenismo, enciclica Mortalium animos. Nel corso del XX secolo in
Europa occidentale e in America settentrionale molti gruppi e movimenti
riuscirono a ottenere profondi cambiamenti sociali in nome dei diritti umani,
creando un rapido miglioramento delle condizioni di vita dei popoli cosiddetti occidentali. I sindacati dei lavoratori lottarono per il riconoscimento del diritto di
sciopero, per garantire condizioni dignitose di lavoro e per proibire o limitare il
lavoro minorile. Il movimento per i diritti delle donne guadagno il suffragio
universale esteso alle donne. All'indomani della Prima guerra mondiale fu messo in
piedi un sistema di protezione delle Minoranze nazionali di razza, di lingua e di
religione, grazie al quale molti gruppi lungamente oppressi riuscirono ad ottenere
diritti civili e politici.
Nello stesso periodo i movimenti di liberazione nazionale poterono affrancare le
nazioni colonizzate dal giogo delle potenze coloniali. Importantissimo in tema di
diritti umani fu il movimento non violento del Mahatma Gandhi che porto lfIndia
allfindipendenza dal dominio britannico.
Un'ulteriore grande affermazione dei diritti umani si ebbe dopo la fine della
Seconda guerra mondiale con la costituzione dellfOrganizzazione delle Nazioni
Unite (ONU) e con la redazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,
siglata a New York nel 1948. Con questa Carta si stabiliva, per la prima volta nella
storia moderna, l'universalita di questi diritti, non piu limitati unicamente ai paesi
occidentali, ma rivolti ai popoli del mondo intero, e basati su un concetto di
dignita umana intrinseca, inalienabile, ed universale. La Dichiarazione riconosce
tra le altre cose il diritto alla vita, alla liberta e alla sicurezza personale; al
riconoscimento come persona e all'uguaglianza di fronte alla legge; a garanzie
specifiche nel processo penale; alla liberta di movimento e di emigrazione;
all'asilo; alla nazionalita; alla proprieta; alla liberta di pensiero, di coscienza e di
religione; alla liberta di associazione, di opinione e di espressione; alla sicurezza
sociale; a lavorare in condizioni giuste e favorevoli e alla liberta sindacale; a un
livello adeguato di vita e di educazione.
Da questo momento in poi il posto occupato dallfONU nel processo di
legittimazione e promozione dei diritti dellfuomo e fondamentale. Ma anche gli
Stati membri del Consiglio d'Europa hanno fatto un ulteriore passo avanti
attraverso una convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore nel 1953. Tra
le altre cose, la convenzione stabilisce che il godimento dei diritti da essa garantiti
non e soggetto ad alcuna discriminazione fondata su ragioni di razza, lingua,
religione, opinione pubblica, origine nazionale o sociale.
Da allora la nozione di Diritti umani si e estesa grazie a leggi e dispositivi che sono
stati creati per sorvegliare e punire le violazioni di questi diritti. Citiamo alcuni
avvenimenti quali pietre miliari di questo processo:
1966: adozione da parte dellfONU del Trattato internazionale sui diritti economici,
sociali e culturali e del Convenzione internazionale sui diritti civili e politici.
1967: creazione di meccanismi di inchiesta da parte della Commissione dellfONU
sulle violazioni dei diritti dellfuomo dei paesi membri.
1991: primo incontro internazionale delle istituzioni nazionali di promozione e
protezione dei diritti dellfuomo organizzata dalla Commissione nazionale
consultiva dei diritti dellfuomo a Parigi sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
1993: adozione da parte dellfassemblea generale delle Nazioni Unite del
Programma dfazione di Vienna, che accorda grande spazio alla democrazia ed
allo sviluppo considerati come parte integrante dei diritti dellfuomo; il Programma
chiama tutti gli stati membri a creare delle istituzioni nazionali che siano garanti dei
diritti dellfuomo.
2006: creazione del Consiglio dei diritti dell'uomo dellfONU al momento
dellfadozione da parte dellfAssemblea generale della risoluzione A/RES/60/251, il
15/03/2006.
Esistenza, validita e contenuti dei Diritti Umani continuano ad essere oggetto di
dibattito sia in filosofia che nell'ambito delle cosiddette scienze politiche. Da un
punto di vista giuridico, i Diritti Umani vengono definiti da convenzioni e leggi
internazionali, ma anche dagli ordinamenti giuridici di numerose Nazioni. Va pero
altresi aggiunto che, secondo molti, la dottrina dei Diritti Umani va al di la delle
singole leggi e forma le basi morali fondamentali per regolare l'ordine geo-politico.
Forse con questi propositi l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvo la
Dichiarazione sul Diritto dei Popoli alla Pace con la risoluzione 39/11 del 12
novembre 1984, iscrivendo cosi la pace tra i diritti umani e dichiarandone la
salvaguardia "un obbligo fondamentale per ogni Stato".
Il rapido progresso del rispetto dei diritti umani nelle nazioni cosiddette occidentali
non ha avuto per molte ragioni un processo parallelo in tutto il mondo. Ancora
oggi in moltissime regioni del pianeta lotte simili a quelle vissute in Europa e Nord
America continuano a opporre tra loro oppressori e oppressi. E ironico pensare
che proprio i popoli delle nazioni occidentali, avendo lungamente lottato per
ottenere i propri diritti, vengano additati adesso quali responsabili almeno in parte
dellfoppressione verso i popoli cosiddetti del "sud del mondo".
Il diritto al cibo e al sostentamento [modifica]
á La globalizzazione dei diritti umani dovrebbe avere il suo culmine con il
riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano alla sopravvivenza â
(Furio Cerutti)
Il diritto ad una alimentazione adeguata costituisce un diritto umano
fondamentale, sancito con fermezza nel diritto internazionale. Ciononostante,
ogni giorno una persona su 5 soffre la fame, per un totale di 800 milioni di persone
affamate in tutto il mondo, e ogni anno oltre 20 milioni di persone muoiono di
denutrizione e di malattie ad essa collegate.
Il diritto al cibo e stato riconosciuto fin dall'adozione della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani nel 1948. Esso e inscritto nelle costituzioni di oltre 20 paesi, e circa
145 paesi hanno ratificato il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e
Culturali del 1966, che impone esplicitamente agli Stati firmatari di legiferare sul
diritto a un'alimentazione adeguata. Il Codice Internazionale di Condotta sul
Diritto Umano a un'Alimentazione Adeguata fu proposto per la prima volta alla
vigilia del Vertice Mondiale sull'Alimentazione del 1996. Esso e largamente
appoggiato dalle organizzazioni non governative che difendono la causa degli
affamati.
La teoria dei diritti umani contempla due tipi di diritti: quelli la cui osservanza si
realizza semplicemente non intervenendo (negativi) e quelli la cui attuazione ha
bisogno di risorse (positivi). C'e dunque una netta distinzione tra un'interpretazione
ristretta (il diritto a procurarsi il cibo mediante i propri sforzi senza essere intralciati)
e un'interpretazione ampia (il diritto a ricevere il cibo quando non si e in grado di
procurarselo). L'interpretazione ampia garantisce una nutrizione adeguata
quando il lavoro o la terra non sono disponibili, e implica dunque l'impiego di
risorse per nutrire gli esseri umani. Numerosi governi non accettano
quest'interpretazione. Anzi alcuni hanno sostenuto che spendere tempo e denaro
per promuovere il diritto al cibo significa sprecare risorse che sarebbe meglio
destinare ai poveri.
Ma considerare la sicurezza alimentare un diritto aiuta a concentrare l'attenzione
sulle questioni cruciali della responsabilita e della non-discriminazione, le quali
hanno anch'esse il loro fondamento nella legge. In conclusione, il diritto al cibo e
interamente una faccenda di buon governo e di attenzione per i piu poveri e i piu
emarginati.[1]
Le critiche all'ideologia dei diritti umani [modifica]
Mentre il marxismo tradizionalmente criticava la tematica dei diritti umani come
espressione di un'ideologia borghese di liberta giuridiche formali cui non sarebbe
concretamente corrisposta una reale emancipazione degli oppressi e in
particolare del proletariato, ma in pratica spesso aderira alla varie dichiarazioni
universali e regionali dei diritti dell'uomo del secondo dopoguerra (con l'eccezione
dell'astensione dell'Unione Sovietica sulla Dichiarazione Universale dell'ONU), sono
relativamente rari le correnti e gli autori contemporanei che si oppongono
esplicitamente alla teorica dei diritti dell'uomo in quanto tale.
Tra i piu noti, possono essere citati qui Slavoj .i.ek (Contro i diritti umani, versione
originale online Against Human Rights), Pierre Chassard (Remarques sur le droits de
l'homme, Mengal, Bruxelles 2002), Alain de Benoist (Oltre i diritti dell'uomo, versione
originale online Au dela des droits de l'homme), Guillaume Faye, e Eric Delcroix.
La maggior parte di tali autori negano che diritti soggettivi siano configurabili
anteriormente e a prescindere dagli ordinamenti giuridici concreti; o criticano
l'idea giusnaturalista che l'espressione legislativa della sovranita, popolare in
particolare, debba essere ristretta ad una funzione notarile rispetto a principi
statici, universali e dati "per natura", e percio solo da scoprire e confermare,
anziche vedere i diritti soggettivi come prodotto della cultura giuridica originale
dei singoli popoli, dei rapporti di classe, o dell'autodeterminazione delle singole
comunita; o ancora trovano ipocrita e fonte di conflittualita internazionale la
pretesa di valutare tutti i sistemi sociopolitici sulla base di criteri storicamente e
politicamente connotati, che si presterebbero facilmente a fare da alibi a
politiche imperialiste, specie dal punto di vista economico-militare.
Legislazione
Legislazione Internazionale
La legislazione sui Diritti Umani solitamente prevede:
diritto alla sicurezza che protegge le persone contro crimini come assassini,
massacri, torture e rapimenti
diritto alla liberta che tutela aree quali la liberta di pensiero e religiosa, la liberta di
associazione, di riunione e di costituirsi in movimenti
diritti politici che tutelano la liberta di partecipare alla vita politica attraverso la
liberta di espressione, di protesta, di voto e di assumere cariche pubbliche
diritti di habeas corpus che proteggono contro abusi da parte del sistema
giudiziario quali incarcerazione senza processo, o con cosiddetto processo
segreto, o con eccesso di punizione
diritti di uguaglianza sociale che garantiscono uguale accesso alla cittadinanza,
uguaglianza di fronte alla legge e abolizione delle discriminazioni
diritto al benessere (puo prendere anche il nome di diritti economico-sociali) che
prevede l'accesso ad un adeguato sistema educativo e la tutela in caso di
situazioni di grave disagio o poverta
diritti collettivi che assicurano la tutela contro genocidi e saccheggio delle risorse
naturali.
Molte Nazioni vorrebbero andare oltre la Dichiarazione Universale e creare un
corpus di leggi che impegni a tutti gli effetti gli Stati della Terra ad attenersi a
norme per la tutela dei Diritti Umani. Questo ha portato - a causa del disaccordo
di alcuni se inserire o meno anche norme di natura socio-economica - alla
preparazione di due trattatti differenti. Fu cosi che, nel 1966 e 1976
rispettivamente, la cosiddetta International Covenant on Civil and Political Rights e
la International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights videro la luce.
Assieme alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo questi documenti
formano l'International bill of rights.
L'ONU ha riconosciuto che, ad eccezione dei cosiddetti Diritti Umani nonderogabili
- i quattro piu importanti sono il diritto alla vita, il diritto alla liberta dalla
schiavitu, il diritto alla liberta dalla tortura ed il diritto all'impossibilita della
retroattivita dell'azione penale -, alcuni diritti possono essere posti sotto limitazione
o perfino messi da parte durante situazioni di emergenza nazionale, ha tuttavia
chiarito e messo in evidenza che questo puo avvenire esclusivamente a
particolari, ristrettissime condizioni; e cioe, che "l'emergenza debba essere
effettiva, debba coinvolgere l'intera popolazione e a venire messa in pericolo
debba essere l'esistenza stessa della Nazione. La dichiarazione d'emergenza deve
essere posta in essere solo come ultima risorsa, ed adottata come misura
temporanea" ]. Inoltre, la condotta in guerra e sempre e comunque governata
dalla Legge Umanitaria Internazionale.
###################################################
Diritti umani. Realtà e utopia.
Isabella Adinolfi (Università di Venezia)
Il titolo scelto inizialmente per questo volume poneva il problema che sarà trattato con ampiezza nelle pagine seguenti nella forma di un'alternativa secca, di un aut-aut: Diritti umani: realtà o utopia? Quando lo scelsi, ormai più di un anno fa, ero fortemente condizionata dai tragici avvenimenti accaduti nel mese di settembre del 2001 e nell'inverno successivo: l'attacco terroristico alle Twin Towers, la guerra in Afghanistan, la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, la guerra "infinita" minacciata da Bush dinnanzi all'estensione, alle complicità e ai modi nuovi del terrorismo - guerra di cui il recente attacco "preventivo" all'Irak, condotto senza l'avvallo dell'ONU, costituisce un'efficace, terribile esemplificazione. Alla domanda che il titolo provocatoriamente poneva, avrei dunque risposto allora, sotto la spinta delle emozioni provocate da quegli avvenimenti, che i diritti dell'uomo sono mera utopia.
A distanza di tempo tuttavia, nonostante i drammatici sviluppi cui proprio ora assistiamo, vado sempre più persuadendomi che quella risposta dovrebbe essere attenuata in senso meno pessimistico, che quell'aut-aut andrebbe mediato. I diritti umani sono infatti oggi, almeno sotto il profilo giuridico, una realtà che si è affermata e consolidata, che anno dopo anno cresce e si perfeziona sempre più [1] . La celebre Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, deliberata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, era proiettata verso il futuro: nel preambolo essa si presentava come "la più alta aspirazione dell'uomo", come "un ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni", ossia come un ideale e un'aspirazione che attendevano riconoscimento e protezione attraverso una loro generalizzazione, internazionalizzazione e, soprattutto, positivizzazione giuridica. Da allora, si deve riconoscere, il diritto internazionale ha fatto enormi progressi in questa direzione: è stata adottata, a livello europeo, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950, cui sono seguite altre convenzioni di carattere regionale quali la Convenzione americana sui diritti dell'uomo del 1969, la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli del giugno 1981 e la Carta araba dei diritti dell'uomo del 1994. Ad opera delle Nazioni Unite, sono stati elaborati i Patti universali del 1966: il Patto sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici sociali e culturali, mentre sono ormai sessantotto le ratifiche acquisite per la costituzione di una Corte penale internazionale permanente, che avrà sede a Roma. Queste convenzioni e queste carte rappresentano, come si è visto anche di recente, la più sicura istanza cui possiamo appellarci per giudicare l'azione di uno stato.
Non solo: il diritto internazionale ha influenzato in modo significativo quello interno a molti stati. La maggior parte di essi, infatti, possiede oggi una Costituzione che include un catalogo dei diritti fondamentali ispirato ai principi della dichiarazione. Sottovalutare questo importante aspetto sarebbe non solo ingeneroso, ma, per più aspetti, pericoloso, perché chi vuol tornare indietro usa spesso in modo del tutto strumentale rilievi critici e giudizi pessimistici espressi in perfetta buona fede.
D'altro canto, però, se i diritti umani sono, almeno fino ad un certo punto e non senza incontrare resistenze, una realtà dal punto di vista giuridico, non si può dire che essi lo siano dal punto di vista del vivere comune, che cioè ispirino e influenzino concretamente l'agire degli individui, dei popoli, degli stessi organismi attraverso cui si governano. E' sufficiente sfogliare un giornale qualsiasi, in un giorno qualsiasi della settimana, per rendersi conto di come ad ogni istante in tutto il mondo vengano violati i diritti umani piùelementari: resoconti di gravi discriminazioni, di massacri, di conflitti armati, in cui la distinzione tra militari e civili non è rispettata e si torturano i propri nemici, scorrono quotidianamente sotto i nostri occhi. Ora, un diritto che non venga fatto valere non è, per definizione, un diritto.Già Simone Weil faceva osservare: "Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto"[2] . Da questo punto di vista, la Dichiarazione è il progetto irrealizzato, mancato della modernità, l'icona della sua grandezza, della sua ambizione e insieme della sua crisi: qualcosa che, in senso pieno, proprio, non esiste in alcun luogo.
I diritti umani sono dunque per un verso realtà, per altro verso utopia; sono insieme l'uno e l'altro, nel senso che rappresentano, nella loro forma più concreta, una legislazione che non ha trovato e non trova tuttora piena e soddisfacente applicazione. Giunta a questa conclusione, il titolo del volume che avevo in progetto di pubblicare non poteva non cambiare, ricevendo una più complessa formulazione: Diritti umani. Realtà e utopia.
Se non che, in questa versione, esso obbliga alla posizione di un nuovo, più decisivo problema: si tratta, infatti, di comprendere perché principi che sono ormai, almeno teoricamente, patrimonio della cultura dell'umanità intera; che vengono, almeno formalmente, riconosciuti e accettati da pressoché tutti gli stati come valori indiscussi, restino poi, di fatto, in vaste aree geografiche quasi del tutto irrealizzati e anche lì, dove hanno ricevuto la loro prima formulazione e sono con più forza radicati, realizzati solo in parte. Perché, in altri termini, si dia uno scarto così evidente tra i due livelli, teorico e giuridico, da un lato, e pratico o di costume, dall'altro; perché vi sia un contrasto così stridente tra la grandiosità delle promesse e la modestia degli adempimenti, tra la nitidezza delle proclamazioni e l'ambiguità delle loro realizzazioni. Non solo: si tratta anche di capire e di indicare se sia possibile e in quale maniera eliminare tale scarto o almeno ridurlo.
Nelle pagine che seguono cercherò di fornire alcuni primi elementi di orientamento per la discussione di questi problemi, anche con l'intento di introdurre e preparare il lettore ai contributi raccolti nel presente volume, che offrono del tema dei diritti umani esplorazioni più settoriali, in ambito politico, sociologico, giuridico e storico-religioso .
La questione del fondamento dei diritti umani
Tra i molti studi dedicati al tema dei diritti umani che affollano gli scaffali delle biblioteche, svettano per chiarezza espositiva e completezza d'informazione quelli che Norberto Bobbio ha dedicato in occasioni diverse e in tempi diversi a questo argomento e che lo studioso ha successivamente raccolto in un volume pubblicato da Einaudi con il titolo: L'età dei diritti. Ora, apre questa raccolta un contributo Sul fondamento dei diritti dell'uomo, il cui testo fu inizialmente letto a un convegno di filosofi tenutosi all'Aquila nel 1964. La tesi che qui Bobbio sostiene, motivandola con tre argomenti, nega l'esistenza di un fondamento oggettivo, assoluto dei diritti dell'uomo.
I diritti dell'uomo sono innanzitutto, secondo Bobbio, mal definibili. I tentativi di definizione fin qui proposti o incorrono nella tautologia ("Diritti dell'uomo sono quelli che spettano all'uomo in quanto uomo"), o esprimono non un essere, ma un dover essere ("Diritti dell'uomo sono quelli che dovrebbero appartenere a tutti gli uomini"), oppure introducono nella definizione riferimenti al "perfezionamento dell'uomo" o allo "sviluppo civile della società" implicanti giudizi di valore che variano a seconda delle preferenze, degli orientamenti politici, dell'ideologia propri di ciascuno: in cosa consista il perfezionamento della persona umana o lo sviluppo della società, osserva lo studioso, è infatti oggetto di molti appassionanti quanto insolubili contrasti.
In secondo luogo, i diritti umani rappresentano una classe variabile. Dal settecento ad oggi il loro elenco è mutato: diritti riconosciuti dalle prime dichiarazioni sono del tutto scomparsi in quelle più recenti e, viceversa, diritti prima del tutto ignorati, col mutare dei tempi e della sensibilità vengono oggi ritenuti fondamentali. Il diritto alla proprietà, ad esempio, definito con enfasi "sacro ed inviolabile" nella dichiarazione francese del 1789, nelle dichiarazioni recenti è appena nominato, mentre diritti sociali di cui gli uomini del XVIII secolo non avevano alcun sentore oggi figurano in tutte le dichiarazioni.
Infine, i diritti umani sono eterogenei - nel senso che i valori ultimi, cui essi s'ispirano, risultano, nella loro forma più pura ed estrema, "antinomici". La realizzazione completa dei diritti di libertà, per esempio, contrasta con la realizzazione completa dei diritti sociali: non per nulla la preferenza accordata all'una o all'altra classe di diritti ha dato vita a due diverse forme di aggregazione sociale e politica: quella liberale e quella socialista. Non si vede, conclude lo studioso, come si possa dare un fondamento unico e assoluto di diritti mal definibili, storicamente relativi ed eterogenei, ossia ispirati a valori tra loro incompatibili.
Qualche anno più tardi, in un altro saggio: Presente e avvenire dei diritti dell'uomo, Bobbio torna a riflettere su questo argomento e individua tre modi diversi di fondare i diritti dell'uomo: quello di dedurli da un dato obbiettivo costante (ad esempio la natura umana); quello di ritenerli verità di per sé evidenti e quello del consenso. Mentre la prima e la seconda via non resistono, secondo lo studioso, ad una verifica storica - nel senso che il concetto di natura umana varia da autore a autore e che ciò che è ritenuto evidente in un'epoca non lo è più in un'altra -, la terza - la constatazione che in una certa epoca un sistema di diritti viene generalmente accettato - poggia, invece, proprio su di un dato storico accertabile. Con l'argomento del consenso Bobbio intende sostituire la prova dell'intersoggettività a quella, ritenuta impossibile o incerta, dell'oggettività: "Certo - osserva lo studioso - si tratta di un fondamento storico e come tale non assoluto: ma è l'unico fondamento, quello storico del consenso, che può essere fattualmente provato"[3] .
Mi sono dilungata nell'esposizione del pensiero di Bobbio non perché lo condivida in toto, ma perché ho concepito questa prima parte dell'introduzione proprio come un confronto, punto per punto, con le sue tesi. Per chi fa esercizio di riflessione è infatti di fondamentale importanza individuare un interlocutore con cui dialogare. Gli studi di Bobbio, per la loro serietà e onestà intellettuale, costituiscono un invito e uno stimolo alla discussione e alla ricerca per ogni lettore, anche quello più lontano dalla sua sensibilità culturale e critico nei confronti dell'esito del suo percorso.
Ora la tesi che qui vorrei suggerire e almeno succintamente argomentare, attraverso una serie di rinvii che ne approfondiscano progressivamente l'intuizione di fondo, sostiene che tutt'e tre i modi di "fondazione" individuati ed elencati da Bobbio sono, se adeguatamente reinterpretati, validi, e tutti e tre possono concorrere all'individuazione e legittimazione dei diritti dell'uomo. Prima di procedere nell'argomentazione, occorre però intendersi su una questione importante: credo che Bobbio abbia ragione nel sostenere che non è possibile dedurre da un qualsivoglia concetto di "natura umana" intesa come dato univoco, costante e immodificabile i diritti che spettano all'uomo in quanto uomo. E non è possibile perché, come vedremo subito, l'uomo non ha una natura definita, determinata e perché la deduzione - questo modo di procedere del pensiero, proprio delle scienze logico-matematiche -non è applicabile all'umano. Ma - e questa è la mia tesi - forse è possibile, a partire da una certa comprensione dell'uomo, capire come e perché si sia posto il problema di un diritto che lo concerne in quanto tale. Come, del resto, parlare di "diritti umani" senza una previa comprensione dell'uomo?
Certo, una semplice rassegna storica dei diversi giudizi portati sull'uomo da parte dei filosofi nel corso dei secoli ci induce a concludere, con lo studioso torinese, che essi variano radicalmente da autore a autore, anche all'interno di uno stesso periodo e di una stessa tradizione o scuola: se per Machiavelli e Hobbes l'uomo è naturalmente malvagio ed egoista, per Locke e Rousseau, invece, allo stato di natura, è un essere buono e altruista; se per alcuni filosofi medievali l'uomo è icona di Dio, per altri è invece un essere irrimediabilmente corrotto dal peccato; c'è chi, utilizzando categorie elaborate dalla psicanalisi, pone l'accento sulle componenti erotiche presenti nell'uomo, che lo spingono a cercare armonia, ordine, disciplina, e chi, invece, sulle pulsioni di morte, che nascono dalla paura, dall'angoscia, dall'insicurezza per la precarietà della propria condizione esistenziale e generano aggressività.
L'elenco è sommario ma sufficiente a porre il problema: com'è possibile dedurre da concezioni tanto diverse e persino opposte della natura umana quali siano i diritti che spettano all'uomo in quanto uomo? "Qual è - chiede Bobbio - il diritto fondamentale dell'uomo secondo la sua natura: il diritto del più forte come voleva Spinoza o il diritto alla libertà come voleva Kant?"[4] . Di primo acchito, l'obiezione pare insuperabile. Un'illustre tradizione filosofica vuole infatti che affermazioni opposte si escludano a vicenda: l'uomo è o buono o malvagio, o imago Dei o peccator & La verità dell'una esclude l'altra. Ma quale tesi accettare e quale rifiutare, e sulla base di quale criterio? L'autorità? Il maggior consenso? La capacità di argomentare e dimostrare? La scelta è difficile perché ciascuna affermazione è difesa dal suo autore con argomenti persuasivi, perché ciascuna gode di vasto consenso& Non solo: la scelta è difficile perché, in qualche modo, tutte le tesi, a ben riflettere, ci appaiono vere.
Sono difatti persuasa che la conclusione cui perviene chi sostiene che l'uomo è irrimediabilmente malvagio non sia falsa, bensì parziale, così come non è falsa ma parziale quella che, al contrario, ne coglie solo una originaria, "naturale" bontà. Ciascuna posizione ha il pregio di cogliere una faccia della realtà umana, il torto di coglierne solo una. L'uomo è buono e malvagio, è simul iustus et peccator. Questa tesi, peraltro, non è nuova nella storia della filosofia. Per esempio, così come viene caratterizzata da Pascal nel frammento 353 dei Pensieri [5] , la natura umana appare doppia, cioè non incapace di bene e non esente da male. Altrove, il filosofo francese scrive che l'uomo può essere considerato in due modi: secondo il fine, e allora egli è grande, o secondo ciò che egli è, e allora è misero (fr. 127). Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare: Pascal ama questi accostamenti audaci, queste opposizioni che testimoniano non un gusto retorico per le antitesi, ma la convinzione radicata che la realtà comporti una doppia faccia, che l'errore consista nell'omissione dell'una o dell'altra e la verità nella loro unione[6] .
Alla luce di questa concezione della condizione umana è forse possibile intuire perché, da una parte, l'uomo proclami nobili principi ideali e, dall'altra, spesso li disattenda. Ancipite, doppia, la natura umana si manifesta in una condotta ambigua e contraddittoria. Se la si considera secondo il suo fine, secondo ciò che dovrebbe essere - e purtroppo solo raramente è (anche se - va detto - quelle rare volte è tale irrefutabilmente) -, essa appare grande; se la si considera secondo ciò che, il più delle volte, quasi sempre, di fatto è, appare misera. Questo scarto tra grandezza e miseria dell'uomo, nella sua storia concreta, nella sua quotidiana esistenza, sta alla base dello scarto tra ideale e reale, tra aspirazioni e attuazioni, tra dover essere ed essere, che molti studiosi dei diritti umani e più in generale della morale hanno denunciato e che lo stesso Bobbio riconosce, quando scrive: "La libertà e l'uguaglianza degli uomini non sono un dato di fatto ma un ideale da perseguire, non un'esistenza ma un valore, non un essere ma un dover- essere"[7] .
Ma non è tutto: può sembrare che fin qui si sia considerata la condizione umana, pur nelle sua contraddittorietà e duplicità, nella compresenza di positivo e negativo, prevalentemente come una datità, come un che di statico, così che da questo punto di vista non vi sarebbe sviluppo, storia. Ma l'uomo non è mera "cosa". Nel De dignitate hominis, in una pagina divenuta giustamente celebre, già Pico della Mirandola aveva posto come caratteristica precipua dell'uomo la libertà. Dopo aver riconosciuto la natura composita dell'uomo, la sua posizione intermedia tra due mondi ("L'uomo è principio di comunicazione tra le creature, familiare alle superiori, sovrano sulle inferiori"), e dopo aver giudicato questa concezione dell'uomo insufficiente a giustificare "l'eccellenza della natura umana", in quanto "cose grandi queste, ma non le principali", alla fine così concludeva: "mi è sembrato di aver capito perché l'uomo sia tra gli esseri viventi il più felice e quindi il più degno di ammirazione, e quale sia alfine, nella concatenazione del tutto, la condizione che egli ha avuto in sorte, che non solo i bruti, ma anche gli astri, anche le intelligenze ultraterrene gli invidiano". Essere uomo - prosegue il testo citato - significa essere libero[8] .
L'uomo "camaleonte" di Pico, dall' "immagine non definita", "né celeste né terreno, né mortale né immortale", come "libero, straordinario plasmatore e scultore di se stesso" può foggiarsi nella forma che preferisce. La natura umana, né stabile né determinata, non è dunque una "sostanza", ma un "fieri", un "compiersi" rivolto al futuro, nel senso che - pur nelle più varie, tra sé avverse condizioni in cui si attua, inscritta com'è tra i due opposti orizzonti della bestia e di Dio - ospita in sé questa vertiginosa, signorile libertà: è faber sui. Ogni essere umano è dunque doppio, ambiguo, ma anche dotato di libertà e capace di usarne per la definizione e costruzione di sé - e formarsi vuol dire decidersi, scegliere, sempre di nuovo, in un incessante lavoro su di sé, sulle proprie condotte, le proprie parole, i propri pensieri, quale che sia l'esito di volta in volta conseguito. Ecco quanto insegnano Pascal e Pico, all'alba della modernità.
Ora queste considerazioni, formulate nei loro scritti in termini teologici, possono essere tradotte - almeno fino ad un certo punto, ma certo non illegittimamente - in un linguaggio più filosofico riprendendo alcune categorie dell'etica elaborate da un autore ben presente anche a Bobbio: Kant. Nell'uomo, così come viene concepito da Kant, si possono infatti distinguere tre termini: la natura umana come di fatto, immediatamente è; la natura come dovrebbe essere e la libertà. Prendendo ad oggetto il dover essere, cioè ciò che l'essere deve e può diventare, ma che immediatamente non è, l'etica kantiana pone infatti a suo fondamento un concetto dinamico e non statico dell'uomo. Essa lo intende come libertà: è l'attività della libertà a esser chiamata a colmare il divario, lo scarto, che separa l'essere dal dover essere. Ad essa l'individuo ricorre per vincere le inclinazioni, i desideri, le condizioni interiori ed esteriori che lo ostacolano nel suo proponimento di adempiere quel dover-essere, quella legge morale che altro non è che l'affermazione unica e incondizionata della sua stessa libertà[9] .
Dunque, per Kant, la perfezione dell'uomo, la sua grandezza, non consiste semplicemente nell'essere faber sui, ma nell'adempimento di quel dover-essere, di quella legge morale, mediante la quale egli si realizza nella sua peculiarità di uomo, in cui consiste la sua dignità e che, in una delle sue formulazioni più interessanti per l'argomento che stiamo trattando, gli ordina di riconoscere a ogni suo simile quella stessa libertà e dignità che ha scoperto in se stesso, e quindi di non trattarlo mai come mezzo ma sempre come fine.
Ebbene se a caratterizzare l'uomo è, come si è visto, essenzialmente la sua libertà, si può forse comprendere perché egli abbia rivendicato e lottato per il riconoscimento di diritti quali la libertà di pensiero, di coscienza, di credo e, più in generale, per la libertà da ogni forma d'oppressione politica e sociale, e perché chieda, come condizioni per la sua autonomia, la libertà dal bisogno, ossia sicurezza e protezione per la vita: cibo, abitazione, cure in caso di malattia, assistenza in caso di disgrazie & ossia i cosiddetti diritti sociali. Questi diritti dovrebbero essere riconosciuti a ogni uomo.
Dico dovrebbero, perché, mentre come diritti astrattamente attribuiti all'umanità e come miei diritti essi mi sono, in qualche modo, immediatamente evidenti, come diritti di ogni uomo sono accettati con grande difficoltà. Ogni diritto, infatti, comporta un obbligo ad esso corrispondente, e assumerlo non è facile, poiché richiede rinuncia e lavoro: riconoscere il diritto di ogni uomo ad avere un lavoro, un'abitazione & comporta l'obbligo a fornirgli un'occupazione e a procurargli una casa; il diritto di ogni uomo alla vita implica l'obbligo o il dovere di garantirgliela. L'adempimento effettivo di un diritto, faceva notare la Weil, non proviene da chi lo rivendica, ma dagli altri uomini che si riconoscono obbligati a rispettarlo. L'adempimento del diritto alla vita di popolazioni povere o sottosviluppate implica il dovere da parte dei popoli più ricchi di aiutarle a conseguire condizioni di emancipazione dal bisogno e di crescita, ma, per far ciò, essi devono rinunciare a una parte delle loro ricchezze, condividerle. Scrive la Weil: "Nessuno, cui la domanda venga posta in termini generali, penserà che sia innocente chi, avendo cibo in abbondanza e trovando sulla soglia delle propria porta un essere umano mezzo morto di fame, se ne vada senza dargli un aiuto"[10] . Ma se la domanda fosse rivolta non in termini generali, se la risposta comportasse un impegno & forse, allora anche il diritto alla vita non ci parrebbe più sacro ed inviolabile.
Infine, non penso che valori come libertà e giustizia sociale non siano tra loro armonizzabili e che la piena realizzazione dell'una comporti l'impossibilità della piena realizzazione dell'altra. Non credo, in altri termini, che giustizia e libertà debbano contemperarsi l'un l'altra secondo una legge dell' armonia come "vicendevole limitazione". Secondo questa legge, una giustizia imperfetta e una libertà limitata potrebbero coesistere, ma non una giustizia assolutamente giusta e una libertà completamente libera. Certo, al di là dei compromessi - spesso, ma non sempre -[11] , mediocri, che sono sotto gli occhi di tutti, finora abbiamo fatto esperienza, per un verso di una presunta giustizia che ha soffocato ogni libertà, ogni iniziativa individuale, una giustizia imposta mediante un regime poliziesco e, per altro verso, di una libertà esagerata, prepotente, irridente nei confronti di ogni esigenza di giustificazione, una libertà che, più che libertà, chiamerei arbitrio. Ma, in linea di principio, libertà e giustizia non sono incompatibili, giacché, come suggeriva Kant, la vera libertà non è arbitrio, e una giustizia imposta con la costrizione, con la violenza, non può essere giusta[12] .
Nondimeno, ciò ci riporta alla questione posta all'inizio di queste pagine: perché, per quanto riguarda i diritti dell'uomo, è così difficile passare dalla teoria alla prassi? Le considerazioni che precedono hanno già indicato alcuni elementi utili a dare risposta a questa domanda, ma mi sembra opportuno insistere ora più direttamente su questo problema. Oggi infatti, nota Bobbio, esiste comunque un diffuso consenso sul tema dei diritti dell'uomo: essi sono sì spesso violati, ma solo raramente respinti in linea di principio. E se un consenso diffuso non garantisce in alcun modo la verità di una posizione - nel corso della storia sono stati molti i casi di allucinazioni collettive [13] -, certo, però, il consensus omnium sposta di fatto l'attenzione degli studiosi dal problema della fondazione oggettiva dei diritti dell'uomo a quello, al momento più urgente, di capire perché essi non siano, nonostante il consenso loro formalmente accordato, di fatto rispettati. "Si ricordi - ammonisce Norberto Bobbio - che il più forte argomento addotto dai reazionari di tutti i paesi contro i diritti dell'uomo, non è già la loro mancanza di fondamento, ma la loro inattuabilità".
La metafora del corpo e le due società
La primavera scorsa, in un Convegno di studio sui Diritti umani organizzato dall'Università di Venezia[14] , Antonino Papisca, noto studioso di diritto internazionale, ha sostenuto una tesi circa il problema qui posto che mi pare interessante discutere. Secondo tale tesi, i diritti umani si estenderanno gradualmente fino ad inglobare l'intera umanità. Nati giuridicamente in occidente come rivendicazione dei nobili contro gli abusi di potere del sovrano, poi estesi ad altri ceti mano a mano che essi acquistavano forza e potere contrattuale, in futuro essi diventeranno, grazie a questo processo di progressivo allargamento, finalmente i diritti dell'intero genere umano. L'immagine dei cerchi concentrici usata dallo studioso in quell'occasione è molto significativa, oltre che suggestiva: il concetto di diritti umani è come un sasso lanciato in uno specchio d'acqua. I cerchi sempre più larghi che il sasso, al suo impatto, produce sulla superficie rappresentano gli individui, gli ambienti sociali e i popoli a cui, con moto lento, quanto inesorabile nella sua meccanica progressione, il concetto di diritti universali e inalienabili si estenderà, fino a raggiungere, in un futuro più o meno prossimo, in modo quasi naturale, l'intera umanità. Parimenti, nel denso studio di Antonio Cassese: I diritti umani nel mondo contemporaneo, la realizzazione di questi diritti viene paragonata a "quei fenomeni naturali - i movimenti tellurici, le trasformazioni magmatiche, le glaciazioni, i mutamenti climatici - che si producono impercettibilmente, in spazi di tempo che sfuggono alla vita dei singoli individui, e si misurano attraverso generazioni intere"[15] . Certo, ammette Cassese, a differenza dei fenomeni naturali, la realizzazione dei diritti non si dispiega da sé, ma richiede la partecipazione attiva di un numero sempre crescente di persone. Nondimeno, il ricorso anche da parte di questo studioso al paragone con fenomeni naturali mi pare significativo.
Già al convegno veneziano avevo espresso alcune perplessità su questo modo di pensare il processo di allargamento e consolidamento dei diritti umani. Credo, infatti, che il progresso dell'umanità, il suo progresso morale - perché è di questo che qui si parla -, possa avvenire solo fino a un certo punto in maniera graduale, o comunque "naturale" - inarrestabile. Un'etica universale come quella che sta a fondamento delle dichiarazioni dei diritti umani può difatti trovare reale e integrale applicazione solo in quella che Bergson, con espressione felice, chiama "società aperta", mentre noi viviamo in "società miste" in cui la "società aperta" è mescolata al suo contrario - la "società chiusa". Se non che, tra chiuso e aperto - come insegna il filosofo francese - non c'è una differenza di grado bensì di natura, non di quantità bensì di qualità.
Ma cosa significano le espressioni "società aperta" e "società chiusa"? Per rispondere nel modo più efficace a questo interrogativo mi sembra particolarmente utile richiamare qui, pur succintamente, le due grandi e, ancora una volta, antitetiche letture, che la tradizione filosofica ha proposto delle ragioni che presiedono al formarsi di quel "corpo" che è la società. Il vivere in società, infatti, è sempre stato per l'uomo un problema, la cui stessa formulazione, lungo i secoli, ha subito numerose, per nulla indifferenti, variazioni.
Nei suoi termini più generali, per un moderno, la questione può trovarsi ricapitolata al meglio nelle parole iniziali del Contratto sociale, che, com'è noto, recitano: "L'uomo è nato libero ed è dovunque in catene"[16] . Quel "dovunque" significa che ogni tradizionale forma di aggregazione sociale, compresa quella democratica, richiede, se non l'aliénation total, come voleva Rousseau, almeno una limitazione o disciplina della libertà del singolo individuo, in quella più immediata accezione di arbitrio di cui si discuteva nella sezione precedente. Ma cosa spinge l'uomo a rinunciare almeno in parte alla propria libertà per entrare a far parte del corpo politico-sociale? Cosa spinge l'individuo a stipulare con i suoi simili questo"contratto"? La filosofia politica classica non ha dubbi al riguardo: il bisogno, l'interesse, la paura.
Nel secondo libro della Repubblica, che può essere considerato a buon diritto il primo trattato di filosofia politica, Platone descrive la nascita della città stato facendola derivare dalla necessità di soddisfare i propri bisogni e di difendersi dalle aggressioni."Per un certo bisogno -leggiamo - ci si avvale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro. Il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato"[17] . All'interno della città- stato, poi, alla classe dei guardiani viene affidato un compito ad un tempo difensivo ed offensivo nei confronti delle minacce che la insidiano. Parimenti, nel primo libro della Politica, Aristotele ribadisce sostanzialmente quanto detto dal maestro: l'uomo è fatto per vivere in società, è un "animale socievole" in quanto incapace di bastare da solo a se stesso[18] . In questa prospettiva la società viene concepita come un grande corpo, al cui interno le diverse classi sociali rappresentano la testa, gli arti, ecc. Fuori di questo organismo, ci sono i barbari, che non sono considerati propriamente uomini.
Una ventina di secoli più tardi, ritroviamo la metafora del corpo nel Leviatano. Il frontespizio della prima edizione inglese del capolavoro di Hobbes presenta l'effigie di un sovrano dalle forme gigantesche. Ora, la parte superiore del corpo di questo gigante, l'unica visibile, è costituita dall'unione degli individui che fondano, con un patto stipulato tra loro, lo stato. Il significato che Hobbes attribuisce al corpo politico-sociale così raffigurato, anche se calato in un contesto radicalmente diverso, non è molto lontano da quello che gli attribuivano Platone e Aristotele. Certo, qui si introduce l'idea di patto sociale e di stato come corpo del tutto artificiale[19] , sconosciuta ai due filosofi greci, ma la sostanza del discorso, per quel che qui ci interessa, resta invariata.
Scrive infatti Hobbes:
"L'unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall'aggressione degli stranieri e dai torti reciproci [&] è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o ad una sola assemblea di uomini [&] che possa ridurre tutte le loro volontà ad un'unica volontà. Il che è quanto dire che si incaricaun solo uomo o una sola assemblea di uomini di dare corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l'autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, [&] da colui che dà corpo alla loro persona; e che ognuno di essi con ciò sottomette la propria volontà e il proprio giudizio alla volontà e al giudizio di quest'ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri"[20] .
Il tipo di società fin qui delineato presenta quasi sempre tre caratteristiche: 1) una gerarchia al suo interno; 2) una certa staticità; 3) l'esclusione dell'altro, del diverso. Il corpo politico e sociale che esse costituiscono può essere di grandezza variabile, ma comunque mai così esteso da includere con pari dignità l'umanità intera. Non potrebbe, del resto, essere diversamente: infatti, come ho già scritto altrove[21] , ci si unisce per salvaguardare il proprio interesse e per paura dell'altro. Quindi contro l'altro. La legge, in questo tipo di società tendenzialmente chiuse, consiste in un sistema di regole, ossia di prescrizioni e proibizioni, che mirano a garantire la loro conservazione o il loro accrescimento secondo le singolarità e differenze che le caratterizzano[22] .
Quando invece si pensa a un corpo sociale che abbracci, fin da principio, fin dal suo primo costituirsi l'intera umanità, per quanto parziali ne siano le singole, concrete attestazioni, allora diverse sono anche le motivazioni che si adducono per spiegare il riunirsi degli uomini in società. In epoca ellenistica, ad esempio, lo stoicismo greco, in concorrenza con la tradizione classica rappresentata da Platone e Aristotele, giunse al concetto, interprete di un nuovo sentimento della vita, "per il quale tutti gli uomini erano fondamentalmente uguali"[23] . Tutti gli uomini partecipano infatti del logos e quindi tutti hanno pari dignità. Più tardi, in epoca romana, questi concetti subirono una rielaborazione e furono più concretamente finalizzati alla prassi grazie all'opera di giuristi e uomini politici come Cicerone, Seneca, Marco Aurelio. Sempre più il mondo tutto fu colto come "la grande polis" - civitas maxima, tradurrà Cicerone - "comprendente gli uomini e gli dei, mantenuta unita e sicura [&] per mezzo di una legge, la legge razionale che vincola tutti in uguale misura"[24] .
"Tutto ciò che vedi, che racchiude il divino e l'umano, è un tutt'uno: siamo le membra di un immenso organismo. La natura ci ha creato fratelli, generandoci degli stessi elementi e per gli stessi fini; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatto socievoli. Ha stabilito l'equità e la giustizia: per suo decreto è più triste fare il male che subirlo; per suo comando le mani siano sempre pronte ad aiutare"[25] , scriveva Seneca. E, poco più tardi, Marco Aurelio invitava se stesso a considerare che "com'è il rapporto che intercorre fra le membra del corpo negli organismi complessi, così è il rapporto fra gli esseri razionali che, pur esistendo in corpi separati, sono costituiti per collaborare a un'unica attività". E aggiungeva: "Questa idea si imprimerà ancor meglio in te, se ripeterai spesso: io sono un membro (melos) dell'organismo formato dagli esseri razionali. Se, invece, utilizzerai la lettera rho, dicendo che sei una parte (meros), significa che non ami ancora con tutto il cuore gli uomini, che il fare il bene non ti dà ancora gioia piena e disinteressata; lo fai ancora in quanto tuo semplice dovere, non ancora come se facessi del bene a te stesso"[26] .
Nella comunità e poi anche società cristiana, più che la comune partecipazione al logos, è l'amore la forza coesiva che, almeno in linea di principio[27] , tiene unito il tutto - Dio e l'uomo, in primo luogo, ma anche gli uomini tra loro: "Se un membro soffre, tutte le altre membra soffrono con lui; se un membro viene onorato, tutte le membra gioiscono con lui" (1Cor 12, 26), scriveva ad esempio S. Paolo, che faceva seguire a queste considerazioni l'inno alla carità. Similmente, per citare un'unica testimonianza di una tradizione assai articolata e per nulla, neppure a livello di dottrina, univocamente risolta, alcuni frammenti di Pascal parlano della società cristiana come di un corpo di "membra pensanti", retto da un'unica volontà.
"Dio - si legge nel fr. 360 - avendo fatto il cielo e la terra che non sentono punto la felicità del loro essere, ha voluto fare degli esseri che la conoscessero e che formassero un corpo di membra pensanti. Infatti le nostre membra non sentono punto la felicità della loro unione, della loro mirabile intelligenza, della cura che la natura si prende nell'infondervi lo spirito e nel farle crescere e durare. Come sarebbero felici se la sentissero, se la vedessero, ma bisognerebbe per questo che avessero intelligenza per conoscerla, e buona volontà per consentire a quella dell'anima universale. Che, se avendone ricevuto intelligenza, se ne servissero per trattenere in loro stesse il nutrimento, senza lasciarlo passare alle altre membra, sarebbero non solo ingiuste ma anche miserabili, e si odierebbero più che amarsi, consistendo la loro beatitudine come il loro dovere nel lasciarsi guidare dall'anima intera cui appartengono, che le ama meglio di quanto loro stesse si amino" (360).
Amando il corpo di cui è parte, ogni membro si ama come il corpo lo ama, e ama le altre membra come il corpo le ama. "Il corpo", recita il frammento 372, "ama la mano, e la mano, se avesse una volontà, dovrebbe amarsi nello stesso modo in cui l'anima l'ama: ogni amore che vada al di là è ingiusto"[28] .
L'utopia come compito
Non è possibile qui insistere ulteriormente sulle diverse declinazioni della metafora della res publica come corpo. Coerentemente agli obiettivi che mi ero proposta, in questo contesto bastava ricordare solo alcuni autori capaci di attestarne le diverse, opposte utilizzazioni, a titolo del tutto esemplificativo delle due società che Bergson prospettava a continuo confronto in tutta la vicenda storica. Ora è invece opportuno tornare a quell'osservazione del filosofo francese, su cui si apriva questa digressione, relativa alle "società miste" in cui viviamo e alla differenza qualitativa intercorrente tra i modelli e le prassi che vi si mescolano. Egli, infatti, nella sua opera fornisce una vivida rappresentazione della dinamica entro cui di fatto sempre coesistono e si contrappongono ed evolvono le due società, tra loro irriducibilmente avverse e reciprocamente escludentisi, delle cui rispettive, distinte teorie si è rintracciata una minima storia: la società chiusa, il cui fine è la conservazione e il benessere di un gruppo di uomini ben delimitato, che legge e obbligazione morale disciplinano e moderano, e la società aperta o "mistica", come pure la chiama, che abbraccia l'umanità intera, ispirata da una religione dinamica e da un'etica universale. Le pagine del suo studio su Le due fonti della morale e della religione ci consentono così di saggiare se e come, eventualmente, sia possibile il passaggio da una forma all'altra di aggregazione, perché, a questo punto, dovrebbe essere ormai chiaro che solo in una società aperta è possibile il pieno rispetto dei diritti dell'uomo, dato che solo in essa ad ogni uomo viene riconosciuto un valore in se stesso e per se stesso[29] .
Dunque, osservava Bergson, i due modelli di società sono mescolati, si compenetrano vicendevolmente, ma non si confondono, ed essendovi una differenza di natura e non di grado tra loro - la stessa differenza che, nel singolo, sussiste tra ospitalità e inospitalità, amore del prossimo e amor proprio - non è possibile passare dall'una forma all'altra mediante un processo naturale, graduale. "Non si abbraccia l'umanità allargando sentimenti più stretti"[30] , ammonisce il filosofo francese, e, al fine di evitare ogni possibile equivoco, aggiunge:
"Ci si compiace nel dire che il tirocinio delle virtù civiche si fa nella famiglia, ed anche che amando la patria ci si prepara ad amare il genere umano. La nostra simpatia si allargherebbe così mediante un progresso continuo, si ingrandirebbe restando la stessa, e finirebbe con l'abbracciare l'intera umanità. [...] Si constata che i tre gruppi ai quali possiamo attaccarci comprendono un numero crescente di persone, e se ne conclude che a questi allargamenti successivi dell'oggetto amato corrisponde semplicemente una dilatazione progressiva del sentimento. Inoltre, quello che incoraggia l'illusione è che, per un caso fortunato, la prima parte del ragionamento si trova ad essere d'accordo con i fatti: le virtù domestiche sono legate alle virtù civiche per la ragione semplicissima che famiglia e società, confuse all'origine, sono restate in stretta connessione. Ma fra la società in cui viviamo e l'umanità in generale c'è [...] lo stesso contrasto che fra il chiuso e l'aperto; la differenza fra i due oggetti è di natura, e non più semplicemente di grado. [...] Chi non vede che la coesione sociale è dovuta in gran parte alla necessità per una società di difendersi contro altri, e che amiamo e viviamo insieme con un gruppo di uomini soprattutto per far fronte contro tutti gli altri? Questo è l'istinto primitivo"[31] .
E ancora:
"noi amiamo naturalmente e direttamente i nostri parenti e i nostri concittadini, mentre l'amore per l'umanità è indiretto ed acquisito. A quelli noi andiamo direttamente, a questa arriviamo solo attraverso un giro; perché solo attraverso Dio, in Dio, la religione invita l'uomo ad amare il genere umano; come anche solo attraverso la Ragione, nella Ragione, mercé la quale comunichiamo tutti, i filosofi ci fanno guardare l'umanità per mostrarci l'eminente dignità della persona umana, il diritto di tutti al rispetto"[32] .
Una psicologia intellettualistica - insiste Bergson - vedrà in queste tre inclinazioni: "amore della famiglia, amore della patria, amore dell'umanità", un medesimo sentimento che si dilata sempre più per conglobare un numero crescente di persone, ma la coscienza, al primo colpo d'occhio, scorge tra i primi due sentimenti e il terzo una differenza di natura. "Gli uni implicano una scelta e quindi un'esclusione: potranno incitare alla lotta, non escludono l'odio. L'altro non è che amore"[33] .
Dunque, secondo il pensiero del filosofo francese - che condivido -, perché una morale universale come quella dei diritti umani non resti una dichiarazione puramente verbale, perché possa realizzarsi, occorre un cambiamento radicale: l'uomo deve mutare profondamente, divenire buono. Come aveva già intuito Platone, esiste una corrispondenza tra la società e il tipo d'uomo che ad essa dà vita, e una società aperta è formata da individui dalla mente e dal cuore aperti, che praticano una morale e una religione aperte & In quest'ottica, lo sviluppo e il progresso della società è strettamente legato a quello degli individui, di ogni singolo individuo. Come quest'ultimo, anch'esso quindi dipende dall'esercizio della libertà - anzi, delle libertà dei suoi membri.
Nondimeno, a conclusione di queste note, chiediamoci: è possibile favorire in qualche modo questo cambiamento? Prepararlo? E per quali vie, soprattutto? Dicevo, introducendo lo scritto, che non va sottovalutata la crescita del diritto internazionale. Tale diritto dà forma giuridica alle aspirazioni morali, universalistiche presenti nell'uomo, ma nei confronti dei suoi propugnatori si potrebbe ripetere quel che Bergson faceva notare a proposito dei fondatori della Società delle Nazioni, dei loro progetti e lavori - cui peraltro collaborò con impegno tra il 1921 e il 1925 -, e cioè che essi, come "tutti i grandi ottimisti", lavorano "supponendo risolto il problema da risolvere"[34] . Non è sufficiente, in altri termini, darsi dei codici di condotta internazionali e non basta neppure, anche se è molto importante, farli rispettare col richiamo a un'autorità che possa sanzionarne la violazione. Occorre che tali fondamenti siano rispettati dagli uomini, perché ne riconoscono la validità.
In questa direzione, credo sia di cruciale importanza educare al rispetto dei diritti umani: gli estensori della dichiarazione del 1789 vedevano giusto, attribuendole innanzitutto un fine pedagogico: "Essa - scrive Oestreich - doveva educare il popolo alla libertà e rafforzarne la volontà d'affermazione dei diritti". La dichiarazione, infatti, doveva valere "come un catechismo nazionale che, insegnato nelle scuole, costituisse per i bambini una sorta di alfabeto", come "un programma di rigenerazione generale"[35] . Questo programma, purtroppo, non è mai stato compiutamente praticato e i diritti dell'uomo sono diventati argomento da trattare nel chiuso delle assisi internazionali, nei convegni di studio, nei parlamenti, nelle riunioni dei governi, tra politici e uomini di cultura, ma non materia di discussione ampia e vivace nel dibattito quotidiano sostenuto dai media, che pure tratta temi e problemi che sempre più spesso direttamente li investe, né oggetto di studio, di uno studio appassionato, per i giovani, che facilmente si lasciano suggestionare da "spiriti animali" che contraddicono ogni universalità ed esaltano dimensioni identitarie ed etniche, quali la superiorità di questa o quella cultura, la supremazia di questa o quella nazione, quando non riparino, vanamente offesi dalla città, in mondi "a parte" & Una vera e propria alfabetizzazione è dunque, a mio avviso, il primo obiettivo da perseguire. Fin dalla scuola primaria e secondaria (per non dire della famiglia e di quanti altri ambienti adulti accompagnano o anche solo incrociano i giovani - bimbi o adolescenti che siano), si dovrebbe proporre e insegnare[36] alle nuove generazioni non solo l'educazione civica, la conoscenza della costituzione del paese in cui si è nati e si vive, ma anche la consapevolezza delle grandi carte internazionali dei diritti dell'uomo, educandoli a considerare se stessi, come l'antico stoico, cittadini del mondo, crescendoli al rispetto dell'altro, del diverso, preparandoli al confronto ospitale, attento, ma pure esigente, con uomini dagli usi e costumi diversi, un tempo forse rari, ora di fatto sempre più numerosi e presenti.
Sempre in questa direzione, mi pare centrale anche il dialogo tra le religioni e sulle religioni, sia perché le religioni e le tradizioni sapienziali loro connesse possono giocare un ruolo positivo nel processo di affermazione dei diritti umani - come fanno osservare, con accenti diversi e da diverse prospettive, Pier Cesare Bori e Vittorio Possenti la prima fonte della morale dei diritti umani è infatti da ricercare nelle tradizioni religiose -, sia per contrastare o limitare gli effetti negativi, di esaltazione di fattori inospitalmente identitari, che le religioni hanno prodotto e producono nei rapporti sociali, perché i contrasti tra gli uomini sono stati e sono tuttora spesso di natura religiosa. Come esistono due modelli di società, due morali, così esistono due forme diverse di religiosità: la religio civitatis che funge da collante nelle società chiuse - in questa religione la divinità è il dio di un popolo, di una nazione, è il protettore di una città, di una professione -, e la religione dell'umanità in cui Dio è padre di tutti gli uomini. Nelle religioni esistenti le due forme di religiosità il più delle volte convivono mescolate fra loro: la prima è fonte di conflitti, la seconda di concordia tra gli uomini.
Infine, il problema di realizzare i diritti umani è politico, se compito del politico è quello di rendere, nell'orizzonte della storia, reale l'ideale, concreto l'universale. A questo livello, vorrei solo richiamare l'attenzione su un problema posto con grande efficacia da Cassese, nel capitolo conclusivo del suo libro, già più sopra citato, che reca un titolo significativo: Che fare?. Qui lo studioso, interrogandosi su come si possano efficacemente proteggere e tutelare i diritti umani, individua nella situazione attuale una sorta di contraddizione sostanziale, che quanto meno ostacola e ritarda ogni soluzione pienamente soddisfacente: "Gli enti - osserva - che dovrebbero assicurare il rispetto di quei diritti sono gli Stati sovrani, e cioè proprio quelli che invece più o meno quotidianamente li calpestano"[37] . Non è difficile, dopo quanto si è detto, capire perché, in linea di principio, ciò accada: abbiamo visto come il sentimento che dà vita alle società chiuse sia sostanzialmente egoistico e come in esse il singolo individuo non sia rispettato per se stesso, non abbia valore in sé, in quanto persona, ma solo come parte di un organismo: lo stato. Ora, va da sé che in uno stato così concepito il singolo individuo è subordinato al tutto e quindi lo stato può, in nome, come si suol dire, dell'interesse generale, calpestare i diritti del singolo. Già Aristotele, utilizzando la metafora del corpo per spiegare il rapporto che deve intercorrere tra il tutto e le parti, aveva scritto: "il tutto deve necessariamente essere anteposto alla parte: infatti soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano"[38] . E se ciò vale per il singolo individuo membro dello stato, a maggior ragione vale per il singolo individuo di uno stato straniero. Una società chiusa tende infatti, come si è visto, per sua stessa natura a concepire l'altro, lo straniero, non come risorsa ma minaccia, non come potenziale amico ma nemico. Dunque, perché i diritti umani siano rispettati, occorre pensare a una politica sovranazionale, a una politica oltre lo stato, di cui soggetti siano i singoli individui e non gli stati sovrani[39] .
Non è possibile qui procedere oltre, pur avvertendo la problematicità e l'astrattezza tendenziale di queste ultime annotazioni, che sembrano inclinare verso esiti affatto utopici. Non notava neppure otto anni fa un lettore attento del presente quale G. Dossetti "la decadenza dei sistemi di organizzazione giuridica collettiva", il crescente "fallimento" dell'ONU nel controllo delle crisi e dei conflitti che sempre più frequenti e ingovernabili si producono? Non concludeva la sua analisi sottolineando che, "se c'è in qualcheduno, direi in una certa minoranza elitaria, un aumento di coscienza e riflessione" in questi ambiti, pure, "nella somma globale dell'umanità che conta e che decide", si registra "un arretramento molto grave, impensabile anche solo venti o trent'anni fa"[40]?
Forse sì, tutto il saggio tende a collocarsi tra gli scritti di quei visionari che, secondo le severe parole di Machiavelli, seguono l'immaginazione più che la realtà e finiscono per fantasticare di "repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere"[41] . Certo, i numerosi "occorre", "si deve"& disseminati in queste ultime pagine sono indizio di un passaggio dal livello descrittivo a quello prescrittivo, ma tale passaggio mi pare inevitabile, dato che, d'accordo con Bobbio, penso che i diritti umani non sono "un dato di fatto ma un ideale da perseguire", non "un'esistenza ma un valore", non "un essere ma un dover-essere". Certo, si vorrebbe sapere se tale dover essere sia realizzabile oppure no. Ora la tesi di questo lavoro è che l'ideale è inscritto nell'umano come sua possibilità, anzi come la sua possibilità più alta, la cui realizzazione è affidata a quella libertà che il suo stesso baluginare accende e provoca. So bene che tale possibilità è quasi sempre tradita, disattesa, negata ma, ciononostante, resta una "possibilità possibile", che non consente d'essere dimenticata.
Ancora una volta utilizzo alcune note di Dossetti per meglio chiarire questo pensiero. In una testimonianza del 1993 egli così si esprimeva a proposito della situazione mondiale all'indomani del crollo del muro di Berlino: "Lo sconvolgimento è così radicale che noi non sappiamo quello che sarà domani, quello che sarà nel 1994, che sorprese avremo. C'è un rimescolamento completo di situazioni [&] un rimescolio totale. In più c'è la grande incognita dell'Islam, un'incognita in qualche modo imprevedibile. Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918, quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-'45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati [&]. Siamo dinnanzi all'esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo, né da parte laica, né da parte cristiana"[42] . Tuttavia, poco oltre, annotava che questa visione dello stato delle cose non era "catastrofica", né "pessimistica": "La speranza non vien meno", concludeva, ponendo "le sorti di tutti nelle mani di Dio", avvertendo la possibilità di "vie nuove e imprevedibili"[43] . La storia attesta una certa indeterminazione, ospita la possibilità di altri percorsi, di un'altra storia, aprendo a imprevedibili risoluzioni che anche una "decisione solitaria", affatto solitaria, può schiudere[44] .
A questa stessa conclusione perviene anche Cassese, che nelle pagine conclusive del suo bel libro, ricordando il finale del Processo di Kafka, l'esecuzione dell' assurda condanna di Joseph K. in una cava abbandonata ad opera di grotteschi funzionari della legge, affida al singolo sconosciuto che per caso vi assiste, a questo solitario testimone, alla sua denuncia, alla sua protesta, in definitiva alla sua azione, la speranza che l'ingiustizia, i soprusi, le sopraffazioni che affliggono l'umanità un giorno cessino: "Come una luce che guizza si spalancarono le imposte di una finestra, una figura debole per la distanza e per l'altezza, si sporse d'impeto tutta fuori, tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Un'anima buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti?"[45] . La lotta per la realizzazione dei diritti umani non può essere intrapresa che da tanti individui, da tanti singoli disposti ad impegnarsi e a lavorare per un futuro diverso, migliore. L'utopia, questa utopia, non è un sogno, non un miraggio, ma un compito per ciascuno di noi, è il termine di un progresso non necessario né lineare, ma volontario e contrastato - e dunque incerto e sempre revocabile.
[1] Per una prima ma fondamentale bibliografia sull'argomento, si legga: K. Vasak (a cura di), The International Dimension of Human Rights, 2 voll., Greenwood Press, Westport (Usa) e Unesco, Paris 1982; M. Bettati e B. Kouchner (a cura di), Le devoir d'ingérence, Ed. Denoel, Paris 1987; A.Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1988; N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1990; P. C. Bori, Per un consenso etico tra culture. Tesi sulla lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane, Marietti, Genova 1991; AA.VV., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1997; G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Laterza, Bari 2002; C. Zanghi' , La protezione internazionale dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2002; B. Nascimbene, L'individuo e la tutela internazionale dei diritti umani, in AA.VV., Istituzioni di diritto internazionale, Giuffre', Milano 2002.
[2] S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Ed. di Comunità, Milano 1973, p. 9.
[3] N. Bobbio, L'età dei diritti, op. cit., p. 20.
[4] Ivi, p. 19.
[5] B. Pascal, Frammenti, tr. it. di E. Balmas, BUR, Milano 1983. Questa traduzione segue, per la numerazione dei frammenti, il criterio adottato dall'edizione Lafuma.
[6] La riflessione filosofica di norma non sopporta questa ambiguità. Epicurei e stoici, scettici e dogmatici, nelle cui scuole Pascal vede riassunte tutte le correnti della filosofia antica e moderna, non hanno saputo pensare la contraddizione tra la condizione di miseria in cui l'uomo versa e le sue aspirazioni alla grandezza: gli uni hanno concluso per la miseria, gli altri per la grandezza (fr. 122). La realtà dell'uomo è, invece, di essere grande e misero. Le tesi contrarie di coloro che ne affermano la sola miseria o la sola grandezza si escludono vicendevolmente e si oppongono, come due eccessi, ad una realtà che le contiene entrambe.
[7] N. Bobbio, L'età dei diritti, op. cit., p. 22.
[8] "Già il sommo Padre, Dio architetto, aveva foggiato questa dimora del mondo, che noi vediamo, il tempio augustissimo della divinità, secondo le leggi della sapienza arcana [...].Tutto era ormai pieno; tutto era stato distribuito tra gli ordini, sommi, medi, infimi [...] Prese perciò l'uomo, opera dall'immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: "Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare, affinché tu avessi e possedessi, come desideri e come senti, la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. La natura degli altri esseri, una volta definita, è costretta entro le leggi da noi dettate. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente, guardandoti attorno, osservare quanto è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini". [...] Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O piuttosto chi ammirerà maggiormente qualsivoglia altro essere?" (P. C. Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 103-105).
[9] "La virtù - scrive Kant - è la forza della massima dell'uomo nell'adempimento del suo dovere. Ogni forza si riconosce soltanto dagli ostacoli ch'essa riesce a superare; per la virtù questi ostacoli sono rappresentati dalle inclinazioni naturali, che possono entrare in lotta con il proponimento morale, e siccome è l'uomo stesso colui che oppone questi impedimenti alle sue massime, così la virtù non è soltanto una costrizione esercitata su noi stessi (perché in questo caso si potrebbe tentare di vincere un'inclinazione della natura con un'altra), ma è anche una costrizione esercitata seguendo un principio di libertà interna, cioè per mezzo della pura rappresentazione del proprio dovere secondo la legge formale di esso" ( I. Kant, Metafisica dei costumi, tr.it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 245- 246).
[10] S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, cit., p. 12.
[11] Aggiungo questa limitazione per evitare di incorrere in un pessimismo circa le democrazie, nel loro effettivo configurarsi, che potrebbe condurre a pericolose quanto indebite e ingiuste, a mio avviso, conclusioni reazionarie, nostalgiche di un ancien régime variamente fantasticato e ridisegnato.
[12] So bene, insisto, che spesso ciò che vale in teoria non vale nella realtà, che, per esempio, i due Patti delle Nazioni unite sui diritti umani, ossia il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici, furono approvati separatamente, perché riflettevano il contrasto tra il blocco dei paesi dell'est e quello dei paesi liberal-democratici - ossia tra il sistema di valori difeso dal comunismo e quello del capitalismo -, ma questo contrasto dipendeva da ultimo dal fatto che nel 1966, in piena guerra fredda, i due blocchi rappresentavano, pur con le debite, per nulla secondarie differenze sussistenti tra l'uno e l'altro, in modo caricaturale la giustizia sociale e la libertà, nel senso che di vera giustizia e vera libertà nei loro sistemi politici e nelle loro società ce n'era davvero poca.
[13] Basti qui ricordare che nel secolo appena trascorso nel cuore della civilissima Europa un'intera civilissima nazione, la Germania, ha potuto credere, riscotendo vasti consensi anche al di fuori dei suoi confini, alla superiorità della razza ariana, con le devastanti conseguenze che conosciamo.
[14] Il convegno cui mi riferisco era stato organizzato dal Dipartimento di Filosofia e T.d. S. dell'Università degli Studi di Venezia e dal Centro culturale Palazzo Cavagnis il 10 aprile del 2002.
[15] A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, op.cit., p. 113.
[16] J. J. Rousseau, Il contratto sociale o principi del diritto politico, tr. it. di A. Grillo, Armando Editore, 1963, p. 62.
[17] Platone, Repubblica, II, XI, 369 c.
[18] Aristotele, Politica, I (A), 2, 1253 a, 5.
[19] Sulla "creazione ex nihilo" dello Stato in Hobbes insiste C. Altini in un saggio che ho tenuto presente nella stesura di queste righe, Il carattere antiprofetico della sovranità. Rappresentazione, corpo politico e trascendenza del potere nel "Leviathan" di Thomas Hobbes, in Il Dio Mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, P. Bettiolo e G. Filoramo edd., Brescia, Morcelliana, 2002, pp. 301-325.
[20] Th. Hobbes, Leviatano, trad. it a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 142-143 (il testo di questa traduzione è ritoccato secondo le proposte di Altini in Il carattere antiprofetico della sovranità , op. cit., p. 305).
[21] I. Adinolfi, Rispetto e amore dell'altro. La regola d'oro della morale, in "Humanitas" 55 (1/ 2000), pp. 61-84.
[22] Prova ne sia, osserva opportunamente Bobbio, che anche il precetto "non uccidere", considerato uno dei capisaldi della morale, vale all'interno del gruppo, ma è sospeso nei riguardi dei membri di altri gruppi (N. Bobbio, L'età dei diritti, op. cit., p. 55).
[23] Nota: Cf M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale I, tr. it. di O. De Gregorio e B. Proto, Firenze, La Nuova Italia, 1967, qui p. 273.
[24] Ivi, p. 276.
[25] Seneca, Lettera 95.52, in Seneca, Tutti gli scritti, tr. it. a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 1994, qui p. 1234. Così scriveva Seneca, quel Seneca che pure, rivolgendosi a Nerone, lo invitava ad uno sguardo su quella "immensa moltitudine discorde, sediziosa, incapace di dominarsi, pronta a saltar su per la rovina altrui e per la propria", su cui governava (Seneca, La clemenza, Proemio 1.1, in Seneca, Tutti gli scritti, op. cit., p. 409).
[26] Cito queste righe di Marco Aurelio, che si leggono in Pensieri VII 13, dalla traduzione offerta in P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai "Pensieri" di Marco Aurelio, tr. it. di A. Bori e M. Natali, Milano, Vita e Pensiero, qui p. 211, segnalando che in questa, come nelle pagine immediatamente precedenti e successive, si leggono importanti considerazioni di Hadot sul tema in esame. Per evitare, tuttavia, una lettura eccessivamente positiva degli scritti stoici, che in taluni sviluppi sono stati spesso accostati al vangelo (cf. per Hadot, La cittadella interiore, op. cit., p. 212) è forse opportuno citare una breve nota di P.L. Donini, che, in Le scuole, l'anima, l'impero: la filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino, Rosenberg & Sellier, 1982, dopo aver ricordato che "dall'universale parentela e fratellanza degli uomini deriva [&] alla filosofia stoica la possibilità di lanciare un appello ad ogni individuo, al di là delle differenze di lingua, di classe, di censo e di sesso: ognuno è davvero cittadino del cosmo [&] a ugual titolo di ogni altro", osserva che "proprio con queste premesse, lo stoicismo romano non promosse affatto, né favorì mai, un sovvertimento dell'ordine costituito; ne divenne anzi uno dei principali pilastri", pur riconoscendo che "non si può negare [&] che questa filosofia - unica tra tutte le dottrine dell'antichità - abbia avuto una qualche diffusione e una certa fortuna anche fra i poveri e i diseredati" (pp. 169 e 171).
[27] Scrivo: "in linea di principio", per richiamare almeno sommessamente la problematicità di qualsiasi interpretazione univoca della vicenda cristiana. Il cristianesimo, infatti, nelle chiese non meno che nelle società che ha investito e talora egemonizzato, ha conosciuto attuazioni spesso antitetiche a quelle di una pratica indiscutibile della carità, poggianti su interpretazioni talora contraddittorie della sua natura ed estensione. Il conflitto dei cristianesimi ha allora prodotto divisioni, lotte e guerre, di cui ad esempio l'Europa tra XVI e XVII secolo è stata testimone drammatico.
[28] In questi passi, certamente, Pascal sta pensando al corpus Christi di cui parla Paolo, alla communio sanctorum cui rimanda 26/359, ma anche, come osserva Mesnard, a una comunità politica. Scrive lo studioso: "L'immagine del corpo pieno di membra pensanti, definendo l'unione che deve regnare tra l'uomo e Dio, fornisce anche il modello della società perfetta" (J. Mesnard, Les Pensées de Pascal, SEDES, Paris 1993, p. 247).
[29] Riconosco di dovere molto all'opera di Bergson per l'impostazione del problema e per la prospettiva qui assunta. Le sue riflessioni sulle due società e sulle due morali mi pare siano ancora oggi attuali e credo possano tornare utili per individuare, in termini generali, la direzione in cui cercare la soluzione al problema che ci sta a cuore. Noi oggi, insisto, viviamo in società miste, in cui morale chiusa e aperta sussistono mescolate tra loro. Se non che commistione, mescolanza non significa conciliazione. Bergson scriveva a Jean Guitton, che tendeva a fondere le due società in una, che ciò non è possibile perché tra le due società - quella aperta e quella chiusa - c'è una "differenza di direzione". Questa differenza di direzione si manifesta nelle due forze contrarie che sono oggi sempre più visibilmente all'opera nelle nostre società: quella che spinge all'universalizzazione, a un certo tipo di globalizzazione, e l'altra, che preme in senso contrario ed esalta le differenze, i nazionalismi, l' "ethnicity".
[30] Ivi, p. 53.
[31] Ivi, p. 30.
[32] Ivi, p. 31.
[33] Ivi, p. 37.
[34] Ivi, p. 316.
[35] G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, op. cit., p. 78.
[36] Il verbo più giusto sarebbe, credo: testimoniare, se il testimone è colui la cui condotta non contrasta con quanto dice, frutto di diligente e modesta indagine, ma ne serba e in qualche modo addirittura precede il tenore. Sono pienamente consapevole dell'accento "religioso" che il termine ha assunto, ma vorrei richiamare il tratto sapienziale e filosofico che tale coerenza tra parola e vita pure indiscutibilmente ospita .
[37] A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, op. cit., p. 115.
[38] Aristotele, Politica, I, (A), 2, 1253 a, 20.
[39] Quando si parla di individuo, occorre però evitare un equivoco che darebbe una piega falsa a tutto il discorso. Individualismo, nel senso in cui qui lo uso, non significa egoismo: vivere a partire dal proprio sé non è la stessa cosa che vivere per se stessi. Singolo, come scrive Kierkegaard, è chi si assume le proprie responsabilità, chi agisce a partire dalla propria interiorità, chi afferma il proprio insostituibile posto nell'esistenza. Diventare un singolo, allora, è un compito per ogni uomo, e chiunque abbia trovato e scelto se stesso, ben lungi dal chiudersi nella propria individualità, si apre all'altro, ad ogni altro, riconoscendo quel valore assoluto che ha scoperto in se stesso ad ogni uomo. Contro l'idolatria dello stato-nazione, contro quel "noi" in cui né l'io né il tu trovano adeguato riconoscimento, è necessario dunque, per la piena realizzazione dei diritti umani, non temere di recuperare il concetto di individuo, anzi di singolo, ovvero di individuo etico consapevole dei propri diritti e dei propri doveri. E il singolo, così inteso, è garantito solo da una politica e da istituzioni sovranazionali.
[40] Cf. La pace difficile - Una testimonianza di Giuseppe Dossetti, a cura di I. Adinolfi e P. Bettiolo, in Annuario della pace, Maggio 2000-Giugno 2001, Venezia 2001, pp. 323-336, qui 330 e 333-334 ( il testo ospita la trascrizione di una conversazione tenutasi a Monte Sole l'11 giugno 1995 ).
[41] N. Machiavelli, Principe, inizio del cap. xv : "Ma sendo l'intenzione mia stata di scrivere cosa che sia utile a chi l'intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni: Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo necessità".
[42] Testimonianza su spiritualità e politica, in G. Dossetti, Scritti politici 1943-1951, a cura di G. Trotta, con presentazione di G. Bianchi e introduzione di M. Tronti, Marietti, Genova 1995, pp. LVIII-LIX.
[43] Ibid.
[44] Fede, una semplice fede cristiana, si dirà. Ma M. Tronti, laico, introducendo questo ed altri scritti politici di Dossetti, risalenti invece al momento del suo impegno politico, tra la fine del secondo conflitto mondiale e l'inizio degli anni '50, dopo aver consigliato di "pensare per un momento" alla possibilità che la via di quest'ultimo fosse prevalsa alla fine degli anni '40, conduce una curiosa riflessione. Scrive infatti, per sostenere questo pensiero: "E non è risolutivo, per dire che no, non poteva vincere, fare ricorso alla gabbia d'acciaio della storia più grande, quella mondiale. In questo secolo - proseguiva - ce n'è stata più d'una di queste scelte che hanno deviato dalla loro naturale origine verso esiti di opposta natura" (M. Tronti, Introduzione a Dossetti, Scritti politici, op. cit., p. XXVII).
[45] F. Kafka, Il processo, tr. it. di G. Zampa, Adelphi, Milano 1978, pp. 233-234.
AAVV, Diritti umani. Realtà e utopia (a cura di Isabella Adinolfi), Città Nuova, Roma, 2004.
######################################
ATTUALITÀ DEI DIRITTI UMANI
di ENRICO BERTI
1. IL PLURALISMO CONTEMPORANEO
Le società politiche moderne, e ancor più quelle a noi contemporanee,
sono caratterizzate, come è noto, dal pluralismo. Con questo termine
si intende la compresenza, nella medesima società, di individui e
gruppi afferenti a religioni diverse, culture diverse, ideologie diverse,
etiche diverse. Esso è la conseguenza di alcuni fenomeni storici di vasta
portata, che si sono verificati nell’età moderna e si sono ulteriormente
accentuati in quella contemporanea, quali la secolarizzazione, le
emigrazioni, l’instaurarsi di regimi democratici in un numero sempre
maggiore di Stati. La secolarizzazione, intesa come emancipazione di
sfere sempre più numerose della vita umana (etica, politica, economia,
ma anche arte e cultura in genere) dall’influenza della religione, in
particolare in Europa dall’influenza della religione cristiana, è un fenomeno
iniziatosi alle soglie dell’età moderna, sviluppatosi in seguito
a ritmo galoppante e oggi giunto ormai alla sua quasi completa realizzazione.
Essa ha fatto perdere all’etica cristiana gran parte dell’influenza
che questa esercitava in passato e non ha prodotto un’etica alternativa,
universalmente condivisa.
Il fenomeno dell’emigrazione, dovuto a motivi economici, di cui
oggi l’espressione più importante è la cosiddetta globalizzazione, cioè
l’interdipendenza dell’economia di ciascun paese del pianeta da quella
di tutti gli altri, ha fatto sì che vaste porzioni di popolazioni si trasferissero
da una società all’altra, perdendo in parte le proprie connotazioni
nazionali, religiose e culturali, ma anche immettendo nelle società
di approdo modi di vivere e di pensare per esse del tutto nuovi,
che sono andati a collocarsi accanto a quelli in esse già esistenti. Si
pensi all’emigrazione di milioni di persone dal nord-Africa, o anche
dal vicino Oriente, in genere di religione musulmana, nell’Europa originariamente
cristiana, che ha portato alla convivenza di culti, costumi
e condotte morali di tipo cristiano e di tipo islamico in numerose città
europee. Infine l’instaurarsi di regimi democratici in Europa, nell’America
del nord e del sud, in parte dell’Africa e dell’Asia, ha imposto
il rispetto della libertà di culto, di pensiero e di comportamenti per individui
e gruppi ispirati a religioni e a idee morali diverse, dando luogo
in tal modo ad una situazione estremamente differenziata ed eterogenea
dal punto di vista etico.
Nel frattempo, nelle società moderne e contemporanee, si è fatta
sempre più pressante l’esigenza di un’etica pubblica, cioè di un’etica
sulla quale poter fondare una serie di norme legislative, intese non solo
a rendere possibile la convivenza civile tra gli individui e i gruppi, ma
anche ad affrontare i nuovi problemi posti dallo sviluppo scientifico e
tecnologico, quali i problemi di bioetica, di etica ambientale, di etica
economica. Poiché ogni legislazione richiede il consenso della maggioranza,
e la sua efficacia è in gran parte condizionata anche dal consenso
delle minoranze, si rende necessario individuare una base comune
di valori condivisi dal maggior numero possibile di individui e di
gruppi che formano una società politica. La soddisfazione di questo
bisogno è chiaramente in contrasto col pluralismo religioso, culturale e
ideologico che caratterizza le società contemporanee, ma non può venire
indefinitamente rinviata e quindi esige il reperimento sollecito di
un insieme di valori comuni.
2. IL COMUNITARISMO
L’ultimo grande tentativo di costruire un’etica universalmente condivisa,
indipendente dall’etica cristiana, anche se non necessariamente
alternativa a questa, è stato l’illuminismo. Esso ha tentato infatti di costruire
l’etica su basi puramente razionali, e perciò condivisibili da tutti,
nel presupposto che esista una natura umana comune a tutti gli uomini
e che questa natura sia caratterizzata essenzialmente dal possesso
della ragione. Il tentativo più emblematico compiuto in questa direzione
è stato quello di Kant, che ha considerato l’universalità non solo
come un requisito desiderabile per l’etica, ma anche come la sua con-
dizione indispensabile. Una norma non ha valore morale, secondo
Kant, se non è universalizzabile. Ciò è dichiarato esplicitamente nella
sua famosa massima: «Agisci come se la norma della tua azione dovesse
diventare, per tuo volere, una legge universale». L’aspirazione di
Kant ad un’etica universale è tanto più notevole, in quanto la sua etica
era — come è stato notato — sostanzialmente individualistica, cioè
non si preoccupava minimamente delle possibili conseguenze che le
azioni del singolo individuo potevano avere sugli altri (anche perché lo
sviluppo raggiunto dalla scienza e dalla tecnica all’epoca non permetteva
ancora ad un singolo individuo di compiere azioni dalla conseguenze
rilevanti per l’intera umanità)1.
Da un po’ di tempo è diventato di moda dichiarare che l’etica illuministica
è fallita. Uno dei più noti sostenitori di questa tesi è stato
Alasdair MacIntyre nel suo libro Dopo la virtù, che ha avuto un meritato
successo2. Io non so se ciò sia vero. Non mi pare una ragione sufficiente
per ammettere la verità di questa tesi il fatto che il fallimento
dell’etica illuministica sia stato decretato da Nietzsche con la sua proclamazione
della morte dell’etica. Oggi è molto di moda citare
Nietzsche e giurare sulle sue parole, ma — non essendo io storicista --
non credo che nemmeno «dopo Nietzsche» si debba rinunciare a tutto
ciò che è stato criticato da Nietzsche, così come non credo che «dopo
Kant» non si possa più parlare di metafisica perché la metafisica è
stata da lui criticata, o che «dopo» un qualsiasi altro filosofo non si
possa più dire una qualsiasi altra cosa per il solo fatto che questa è
stata oggetto di qualche critica. Tuttavia mi sembra innegabile, come
ha osservato MacIntyre, che dopo la famosa osservazione di Hume,
secondo la quale da proposizioni formulate col verbo «essere» non si
possono dedurre proposizioni formulate col verbo «dovere», e soprattutto
dopo che questa osservazione è stata posta dalla filosofia analitica
alla base dell’etica col nome alquanto solenne di «legge di Hume»,
gran parte dell’etica contemporanea ha rinunciato a giustificare razionalmente
le varie norme, abbandonandosi ad una sorta di emotivismo,
che poi si risolve sostanzialmente nel relativismo, o nello scetticismo,
cioè nella morte dell’etica.
A questi esiti ha cercato di reagire, sulla scia di MacIntyre, il cosiddetto
«comunitarismo», cioè quella filosofia — diffusa soprattutto
negli Stati Uniti d’America — secondo la quale l’unica possibilità di
fondare l’etica è quella di rifarsi alle tradizioni e l’unico custode delle
tradizioni è la «comunità», intesa come unione di persone fondata non
su una libera scelta, ma su qualcosa che precede la scelta, per esempio
la nascita, e quindi la nazione, il gruppo etnico, la lingua, la storia comune,
i costumi, ecc. A dire il vero MacIntyre non è mai giunto a tali
estremi, ma altri «comunitaristi» (per esempio Michael Sandel) vi si
sono avvicinati3. Anche in questo caso, come sempre, i comunitaristi
più intelligenti, cioè quelli che sono anche migliori filosofi, come lo
stesso MacIntyre, o Michael Walzer, o Charles Taylor, rispecchiano
meno intensamente le caratteristiche del movimento, mentre altri, meno
intelligenti e perciò meno noti, le riproducono più fedelmente e, a
volte, fanaticamente.
Poiché MacIntyre ha indicato Aristotele come unica alternativa
possibile a Nietzsche (ma riferendosi alla dottrina aristotelica della
virtù come abito formato attraverso l’educazione e le leggi), molti
hanno creduto che il comunitarismo si ispirasse ad Aristotele, trascurando
il fatto che per questo filosofo il fondamento dell’ethos è la polis,
la città, che per lui non è una comunità particolare, ma è la società
politica a cui qualunque uomo per natura tende e nella quale soltanto
può realizzare pienamente la sua natura di uomo. Per Aristotele la natura,
come ben sanno gli studiosi di questo filosofo, non è lo stato primitivo,
connesso alla nascita, e quindi «pre-politico», come è invece
per i filosofi moderni (Hobbes, Locke, Rousseau e i giusnaturalisti in
genere), bensì è la perfezione, il compimento, il fine. Quando perciò
Aristotele afferma che la polis è una società naturale, non intende dire
che essa sia la comunità primitiva, precedente le scelte degli individui,
ma la considera al contrario una forma di quella che modernamente
chiameremmo «società», cioè la società politica, ovvero la società
«perfetta» (nel senso di «autosufficiente»).
Il richiamo alla tradizione, o alla comunità, anche se sufficiente a
fondare un’etica, non può in nessun modo dar vita ad un’etica universalistica,
perché la tradizione e la comunità sono per definizione particolari,
locali, circoscritte ad un gruppo. In una società pluralistica come
quella contemporanea, le tradizioni comunitarie non possono più
fornire una base adeguata per l’etica pubblica, ma possono solo essere
fonte di rivalità, di contrasti, di attriti, che sono le negazione stessa
dell’etica pubblica. Di qui, a mio giudizio, l’assoluta insufficienza del
richiamo alla tradizione come base per una ricerca di princìpi etici
condivisibili.
3. IL LIBERALISMO
Una possibile alternativa universalistica al comunitarismo è rappresentata,
secondo alcuni, dall’utilitarismo, cioè dall’etica che assume
come criterio di valutazione dei vari comportamenti la possibilità di
garantire la massima felicità realizzabile al maggior numero possibile
di persone. È stato tuttavia osservato, a mio avviso con ragione, che
questo criterio si fonda sostanzialmente sulla reciprocità, cioè sullo
scambio, e quindi non è applicabile, ad esempio, alle generazioni future,
rivelandosi in tal modo incapace di fondare un’etica dell’ambiente.
È nota, a questo proposito, la battuta attribuita a Groucho Marx: «che
cosa hanno fatto per noi le generazioni future, perché noi dobbiamo
preoccuparci di loro?».
Un’alternativa più valida al comunitarismo, emersa nell’etica contemporanea,
è il liberalismo (inteso nel senso americano del termine, il
quale non ha necessariamente a che vedere col liberismo economico),
cioè la concezione secondo cui il fondamento dell’etica è la libertà del
singolo, la quale ha come suo unico limite il divieto di violare la libertà
degli altri, quando questa a sua volta non comporti prevaricazioni
verso le libertà altrui. Come risulta da questa pur sommaria caratterizzazione,
il liberalismo è per definizione universalistico, cioè ritiene
che abbiano valore solo le norme che possono essere condivise da tutti.
Per questo esso si oppone al comunitarismo, nel senso che da un
lato privilegia l’individuo rispetto alla comunità e dall’altro privilegia
una società di tipo tendenzialmente universale rispetto a qualsiasi comunità
particolare.
Il più valido rappresentante del liberalismo nell’etica contemporanea
è, come è noto, John Rawls, il quale ha elaborato una geniale «teoria
della giustizia», capace di coniugare felicemente la libertà di ciascuno
con l’uguaglianza di tutti, almeno nel punto di partenza, cioè
nelle possibilità: in tal modo egli è riuscito a dare al liberalismo una
dimensione veramente universalistica4. Rawls ha presentato questa sua
concezione come una sorta di neocontrattualismo di ispirazione kantiana,
richiamandosi giustamente all’universalismo di Kant. Ma, come
Kant, ha ritenuto che la condizione imprenscindibile per costruire
un’etica universalistica fosse la rinuncia a qualsiasi concetto determinato
di bene, e quindi il formalismo. Questa decisione è rispecchiata
perfettamente nel privilegiamento, operato da Rawls, del «giusto» rispetto
al «bene». Rawls ritiene infatti che non sia possibile individuare
un concetto di bene accettabile da tutti, il cosiddetto «bene comune», e
che pertanto ciascuno debba essere lasciato libero di formulare il progetto
di vita che preferisce, vale a dire di scegliersi il «bene» che più
gli aggrada. L’importante è assicurare a tutti la possibilità di scegliere
e di pianificare il proprio bene, cioè il minimo necessario per poter
realizzare la massima felicità possibile, e questo è appunto il «giusto».
A dire il vero né l’etica di Kant, e nemmeno quella di Rawls, sono
puramente formali. Kant ammetteva dei contenuti di valore ben determinato,
quali ad esempio la dignità della persona umana. Un’altra sua
famosa massima, infatti, suona: «Agisci in modo da considerare
l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre
anche come fine e mai soltanto come mezzo». E lo stesso Rawls,
quando si preoccupa di assicurare a tutti il minimo necessario, cioè il
«giusto», evidentemente considera la dimensione intersoggettiva
dell’uomo come un contenuto determinato e irrinunciabile, quindi un
elemento essenziale del «bene», comunque quest’ultimo venga poi
concepito. Tuttavia l’universalismo neocontrattualistico ha contribuito
a diffondere la convinzione che un’etica pubblica, per essere veramente
condivisibile da tutti, cioè universale, debba necessariamente
essere formalistica, cioè priva di contenuti determinati, priva di
un’idea di «bene comune».
4. I DIRITTI UMANI E IL DIBATTITO CONTEMPORANEO SULL’ETICA
La mia opinione è che oggi sia ancora possibile individuare
un’etica veramente universalistica, cioè non legata ad una comunità o
ad una tradizione particolari, ma condivisibile da tutti, e al tempo stesso
non formalistica, cioè capace di proporre valori determinati. Questa
è l’etica implicita nei cosiddetti «diritti umani», i quali presuppongono
chiaramente una determinata concezione dell’uomo, secondo la quale
ciascun individuo umano possiede determinati diritti, cioè determinate
capacità, di cui deve essergli riconosciuta e garantita la possibilità di
realizzazione. Si tratta di un’etica universalistica, perché — come vedremo
subito — di fatto essa è condivisa da tutti, al di là di ogni appartenenza
a particolari comunità, culture e civiltà. Ma si tratta anche
di un’etica non formalistica, perché alla base di essa c’è un’idea di
«bene comune», inteso come piena realizzazione, per ogni uomo, di
tutte le capacità che effettivamente possiede, cioè come «pienezza»
(fulfilment) o, secondo quanto è stato anche detto, «vita fiorente»
(flourishing life)5.
Prima, tuttavia, di entrare nel merito dei diritti umani, mi si consenta
una breve digressione di tipo metodologico. Nella rinascita di
interesse per l’etica che ha caratterizzato la cultura filosofica della seconda
metà del Novecento, prodotta da un lato dall’incapacità valutativa
e orientativa delle scienze sociali, dall’altro dal porsi di problemi
morali sempre nuovi in conseguenza dello sviluppo scientifico e tecnologico,
uno degli autori che hanno maggiormente richiamato l’attenzione
dei filosofi morali è, come è noto, Aristotele, grazie al suo
tentativo di costruire una «filosofia pratica», cioè dotata di una sua razionalità
ed al tempo stesso capace di orientare la prassi, non solo individuale,
ma anche sociale. Nella filosofia pratica aristotelica, che per
varie ragioni non ritengo più proponibile oggi, c’è tuttavia un aspetto
metodologico che merita qualche attenzione, proprio in vista della soluzione
del problema sopra esposto, cioè quello di reperire i fondamenti
di un’etica pubblica sufficientemente condivisa.
Nell’Etica Nicomachea, infatti, il filosofo greco indica il metodo
che conviene adottare per la soluzione dei problemi connessi alla valutazione
delle virtù e dei vizi. Esso consiste anzitutto nell’esporre, a
proposito di ciascun problema, le opinioni maggiormente diffuse al riguardo
(Aristotele dice i phainòmena, intendendo con questo termine
ciò che appare vero ai diversi individui o gruppi, cioè i «pareri»); poi
nello sviluppo delle «aporie», cioè nella deduzione delle conseguenze
che derivano dalle soluzioni opposte di uno stesso problema; infine
nell’adozione di quelle opinioni che si dimostrino capaci non solo di
risolvere tutte le difficoltà connesse alle loro conseguenze, ma anche e
soprattutto di «lasciar sussistere» gli èndoxa, o nella loro totalità, o
almeno nella loro maggior parte e nei più importanti. Questo metodo,
secondo Aristotele, è in grado di fornire un tipo di dimostrazione, certamente
non rigoroso come quello delle dimostrazioni scientifiche, ma
in ogni caso sufficiente alle esigenze dell’etica6.
Gli èndoxa sono definiti da Aristotele stesso nei Topici come le
opinioni condivise (o condivisibili) da tutti, o dalla maggior parte degli
uomini, o da coloro che sono competenti, e tra questi o da tutti, o dalla
maggior parte, o dai più stimati. Questi èndoxa, che potremmo chiamare
punti di vista «endossali» (il contrario di «paradossali»), cioè diffusi
nell’opinione pubblica (en doxa), sempre secondo Aristotele, fungono
da premesse dei cosiddetti sillogismi dialettici, cioè di quelle
argomentazioni che non sono propriamente dimostrative, nel senso
scientifico del termine, perché non partono da premesse necessariamente
vere, ma non sono nemmeno «eristiche», cioè assunte per mero
spirito di contesa, al fine di prevalere nelle discussioni con qualsiasi
mezzo, anche con l’imbroglio. Le argomentazioni dialettiche mirano a
confutare, o a stabilire una tesi, con mezzi leali, logicamente corretti,
partendo da premesse condivise dal proprio interlocutore e producendo
quindi conclusioni che egli sarà ugualmente tenuto a condividere7.
5. I DIRITTI UMANI COME MODERNI ÈNDOXA
Ebbene, la mia tesi è che oggi la funzione di quelli che Aristotele
chiamava èndoxa può essere svolta dai diritti umani, cioè dalle enunciazioni
contenute nelle grandi dichiarazioni dei diritti, quali sono le
carte costituzionali dei vari Stati e le dichiarazioni delle grandi organizzazioni
internazionali, ossia l’O.N.U., il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione
dell’Unità africana, l’Organizzazione della Conferenza
islamica, ecc. Per quanto concerne, infatti, le carte costituzionali, cioè
le Costituzioni dei vari Stati, non c’è dubbio che esse, essendo entrate
in vigore, hanno ricevuto l’approvazione e quindi il consenso, della
maggior parte dei cittadini, o dei loro rappresentanti, e in linea di principio
devono essere accettate da tutti i cittadini medesimi. Ma anche le
dichiarazioni internazionali, prima fra tutte la Dichiarazione Universale
dei diritti dell’uomo approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite
nel 1948, sono espressioni di un largo consenso. Anche se è vero, infatti,
che gli Stati membri dell’O.N.U. nel 1948 erano molto meno
numerosi di oggi, e se qualcuno di essi (in verità solo l’Arabia Saudita)
se ne dissociò, tutti gli altri Stati che sono poi entrati nell’Organizzazione
(oggi più di cento) hanno implicitamente fatto propria
quella Dichiarazione, e gli stessi Stati che potevano avere, per motivi
religiosi o culturali, delle riserve su di essa, vi si sono progressivamente
avvicinati.
Mi riferisco in particolare ad alcuni documenti, quali la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo nell’Islam, approvata nel 1981
dal Consiglio Islamico per l’Europa, e la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo in Islam, approvata dalla Conferenza islamica nel 1990;
nonché alla Carta Africana dei diritti dell’uomo, approvata dall’Organizzazione
dell’Unità africana nel 1981 a Nairobi. Le dichiarazioni
islamiche, pur fondando i diritti umani sulla Legge divina (la Sharî’a),
riprendono infatti i diritti fondamentali della Dichiarazione dell’O.
N.U., cioè il diritto all’incolumità personale, alla libertà e ad una
vita degna; mentre quella africana aggiunge ai diritti dell’individuo i
diritti dei popoli, che sono perfettamente compatibili con quelli contenuti
nella dichiarazione universale dell’O.N.U.
Per queste ragioni ritengo che le dichiarazioni dei diritti umani oggi
siano condivise, se non da tutti, certamente dalla maggior parte degli
uomini, e dai competenti, che sono i rappresentanti delle popolazioni e
degli Stati, cioè gli uomini politici, o almeno dalla maggior parte di
88 ENRICO BERTI
questi e dai più stimati. Esse perciò corrispondono perfettamente alla
definizione che Aristotele dava degli èndoxa. Né vale, contro di esse,
l’obiezione che spesso si sente fare, cioè che i diritti umani, ancorché
proclamati da tutti, sono spesso conculcati da Stati che pure fanno
parte dell’O.N.U. o da singoli uomini politici, per esempio da dittatori,
che operano all’interno di singoli Stati. Purtroppo questo è vero, cioè i
diritti umani nel mondo sono ancora ben lontani dall’essere effettivamente
rispettati nei confronti di numerosi individui e anche popoli. Le
documentazioni apportate a questo proposito da associazioni umanitarie
quali Amnesty International sono a volte impressionanti.
Tuttavia è un fatto che quanti violano i diritti umani spesso negano
di farlo, o lo fanno di nascosto, cioè non pretendono di giustificare
pubblicamente tali violazioni, bensì le praticano di fatto e respingono
energicamente l’accusa di praticarle. In tutto questo c’è certamente
dell’ipocrisia, ma c’è anche il riconoscimento che non si può prendere
posizione pubblicamente contro i diritti umani, perché una simile presa
di posizione sarebbe impopolare, farebbe perdere i consensi e in definitiva
indebolirebbe il suo autore. Dunque anche da parte di coloro che
violano i diritti umani si riconosce che questi sono largamente condivisi.
E tale riconoscimento indubbiamente conferisce ad essi un prestigio
che certamente non è posseduto dalle prese di posizione di tipo
opposto e comunque divergente. Per questi motivi si può dire che i diritti
umani, sia pure più in teoria che in pratica, più nell’ufficialità che
nella pratica quotidiana, sono largamente condivisi e quindi fungono
da moderni èndoxa.
6. I DIRITTI UMANI E L’ETICA PUBBLICA
Se è vero quanto detto sopra, allora è possibile assumere i diritti
umani come premesse a partire dalle quali si può argomentare per costruire
le norme fondamentali di un’etica pubblica. Naturalmente si
dovrà tener conto, come suggerisce Aristotele, delle opinioni più svariate,
quelle che discendono da religioni, culture, ideologie diverse; se
ne dovranno sviluppare le conseguenze, per valutare se contengano
delle contraddizioni interne, ma soprattutto per controllare se esse siano
o meno compatibili con tutti i diritti umani, o almeno con la maggior
parte di essi, o almeno con quelli riconosciuti da tutti come i più
importanti, quali il diritto alla vita, all’uguaglianza, alla libertà. Le
ATTUALITÀ DEI DIRITTI UMANI 89
norme che riusciranno a soddisfare questi requisiti potranno fornire la
base a progetti legislativi destinati ad incontrare il consenso, e quindi
ad essere tradotti in dispositivi di legge, mentre quelle che non vi riusciranno
potranno essere abbandonate come destinate a non trovare
consensi. Si riuscirà in tal modo a costruire un corpus di regole condivise,
o condivisibili, da tutti.
Una tesi del genere è stata sostenuta anche da Rawls nel suo ultimo
libro importante, cioè Liberalismo politico, dove egli ha cercato una
mediazione tra le differenti concezioni etiche che caratterizzano la società
pluralistica nel cosiddetto «consenso per sovrapposizione»
(overlapping consensus), cioè in quella parte di valori, o di norme, che
sono comuni a tutte le concezioni diverse, anche se non le esauriscono
integralmente e quindi ne lasciano sopravvivere altre parti, caratterizzate
in modi più specifici e peculiari ai diversi gruppi8. Naturalmente
rimane possibile che ciascuna concezione giustifichi in modi diversi,
cioè per motivi diversi, i valori che vengono a sovrapporsi a quelli
delle altre. Ciò è stato notato già da Jacques Maritain nel 1948 a proposito
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quando egli
osservò che non bisognava chiedersi il «perché» delle adesioni dei
singoli Stati alla dichiarazione, in quanto tali «perché» sarebbero stati
diversi ed anche incompatibili tra loro; bisognava invece accontentarsi
del «che», cioè del fatto che su alcuni diritti fondamentali si registrava
una convergenza9.
Se la funzione dei diritti umani è quella di fornire le premesse per
delle argomentazioni che portino ad un’etica pubblica, e quindi a una
legislazione, capace di ottenere i necessari consensi, è inutile chiedere
il «perché» di essi. Questa domanda interessa certamente i filosofi, che
sono sempre alla ricerca delle ragioni e dei fondamenti, ma è del tutto
irrilevante ai fini pratici, che sono gli unici importanti dal punto di vista
non solo politico e legislativo, ma anche etico. Le assemblee legislative,
infatti, non sono composte da filosofi, né le popolazioni che
esse rappresentano sono costituite solo da filosofi. L’importante è
l’uso dialettico, cioè argomentativo, che si può fare dei diritti umani
per convincere della bontà di determinate soluzioni. A questo scopo
non c’è bisogno di risalire sino ai fondamenti, ci si può accontentare di
risalire a premesse condivise, cioè al quel «massimo comun denominatore
» che forma la base dell’overlapping consensus, e da lì si deve
poi partire per dedurre, o per argomentare, o per confutare, lasciando
ai filosofi il compito di ricercare gli eventuali fondamenti.
Non è detto, tuttavia, che i diritti umani si rivelino inutili a
quest’ultimo scopo, cioè che non sia possibile anche un uso filosofico
dei diritti umani. Anziché risalire ai fondamenti, cioè domandarsi subito
su che cosa si fondino i diritti umani, se si fondino su una legge
divina, o su una presunta legge naturale, o sulla cultura dei popoli,
sulla storia, ecc., conviene partire ancora una volta dai diritti umani e
procedere, per così dire, all’insù, cioè all’indietro, cercando di scoprire
che cosa essi implicano, o che cosa in realtà nascondono. In tal modo
si riuscirà, se non a mettere in luce un’intera antropologia, almeno a
mettere in luce alcuni grandi valori impliciti nei principali diritti umani,
i quali sono certamente non privi di interesse dal punto di vista filosofico
più generale.
Faccio qualche esempio. L’uguaglianza, invocata da tutte le dichiarazioni
dei diritti, da quella francese del 1789 a quella universale del
1948, quando esse recitano che «tutti gli esseri umani nascono liberi
ed uguali in dignità e diritti», significa che almeno implicitamente si
riconosce che v’è qualcosa che accomuna tutti gli uomini, al di là delle
differenze di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di origine
nazionale o sociale, di ricchezza, ecc. Ebbene, questo è ciò che anticamente
veniva chiamato «natura umana» e che la filosofia moderna
non ha più voluto sentir nemmeno nominare. La libertà, di pensiero, di
coscienza, di religione, di stampa, di associazione, che tutte le costituzioni
democratiche e tutte le dichiarazioni internazionali ugualmente
riconoscono, significa implicitamente che si riconosce all’uomo la capacità
di sottrarsi, almeno in parte, ai condizionamenti materiali a cui
può essere soggetto (ereditarietà, ambiente, educazione, stimoli sessuali,
tendenze psichiche conscie o subconscie, condizionamenti sociali
o economici), e dunque di possedere quella che gli antichi chiamavano
una natura razionale, o spirituale.
Infine il più contestato, un tempo, fra tutti i diritti, ma oggi unanimemente
riconosciuto, cioè il diritto alla proprietà, che tutte le dichiarazioni,
da quella del 1789 a quella del 1948, hanno proclamato (v. art.
17: «Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o
in comune con altri. Nessun individuo può essere arbitrariamente privato
della sua proprietà»), ha delle profonde implicazioni filosofiche.
Poiché, infatti, esso rimane valido qualunque mutamento intervenga
nella vita di un individuo, mutamento di religione, di partito, di opinione,
di cittadinanza, esso testimonia che si riconosce nell’individuo
un sostrato permanente e immutabile, dal quale dipende la sua identità
personale. Questo corrisponde a ciò che i filosofi antichi e medievali
chiamavano «sostanza», altro termine aborrito dalla filosofia moderna,
ma che si rivela indispensabile per un uso pratico.
Se mettiamo insieme tutte le suddette implicazioni, ne risulta che
l’uomo è una sostanza individuale di natura razionale, cioè ne risulta
nientemeno che la definizione di «persona» data da Severino Boezio
(rationalis naturae individua substantia)10. Con questa osservazione
non intendo sostenere, ovviamente, che oggi si possa riproporre semplicemente
la definizione classica di persona umana, senza tener conto
delle innumerevoli conoscenze che sono state acquisite dall’antropologia
scientifica e filosofica moderna e contemporanea. Né intendo
sostenere che i diritti umani costituiscano un codice etico completo,
contenente la soluzione di tutti i nuovi problemi posti all’etica dallo
sviluppo scientifico e tecnologico. Ritengo semplicemente che essi siano
una base di partenza estremamente utile, a causa della larga condivisione
di cui godono, per chi voglia effettivamente progredire nella
ricerca di soluzioni condivisibili, ovviamente sviluppando tutte le implicazioni
etiche contenute nell’enunciazione dei diritti umani attraverso
argomentazioni, discussioni, confronti. Del resto, quale è mai il
compito dell’etica come disciplina filosofica, se non questo di argomentare,
discutere e confrontare?
10 Ho sviluppato più ampiamente questo punto di vista nell’articolo L’etica alla
ricerca della persona, in «Il Mulino», 40 (1991), pp. 579-588, ristampato in E. Berti,
Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, Reggio Emilia
1993.
Note
1 Ciò è stato osservato dai fautori dell’etica della responsabilità, in particolare da
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
2 A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Nostre Dame
Press, Notre Dame (Ind.) 19811, trad. it. Dopo la virtù. Saggi di teoria morale, Feltrinelli,
Milano 1987.
3 M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press,
Cambridge (MA) 1982, trad. it. Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano
1994.
4 J. Rawls, A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard University Press,
Cambridge (MA) 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.
5 Esponenti di questa concezione sono oggi una filosofa come Martha Nussbaum
ed un economista come Amartya Sen, ai quali risalgono le espressioni citate. Cfr. A.
K. Sen, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988; M.C. Nussbaum, La fragilità
del bene, il Mulino, Bologna 1998.
6 Aristotele, Eth. Nic. VII 1, 1145 b 2-7.
7 Aristotele, Top. I 1, 100 a 1-b 25.
8 J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993, trad.
it. Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994.
9 J. Maritain, L’uomo e lo Stato, Vita e pensiero, Milano 1960.